Il capogruppo PD alla commissione Lavoro
Parla Arturo Scotto: “Prendendo in giro 15 milioni di persone la destra fa autogol”
«Si è combattuto a mani nude. Informazione col contagocce e la destra che ha chiesto al proprio elettorato un atto di fede sull’astensionismo. Il Pd? Dove doveva collocarlo Schlein se non al fianco dei promotori del referendum e per i 5 sì?»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Arturo Scotto, capogruppo PD alla commissione Lavoro della Camera e membro della Direzione nazionale del Partito Democratico: c’è chi ironizza sul “flop act”, chi, anche dall’interno Dem, parla di un enorme regalo fatto alla destra. Onorevole Scotto stiamo analizzando un disastro referendario annunciato?
L’obiettivo era il quorum per cambiare quelle leggi sbagliate, per allargare la sfera dei diritti di milioni di lavoratori e di cittadini. Non lo abbiamo raggiunto, ma quasi 15 milioni che hanno detto no alla precarietà vanno trattati con rispetto. Ci troviamo davanti a un fatto che ormai è innegabile: un astensionismo strutturale che è diventato la malattia del nostro tempo. Viene da lontano, ha radici indubbiamente nella questione sociale – Federico Fornaro nel suo ultimo libro Una democrazia senza popolo parla dei “perdenti della globalizzazione” – ma forse ha ragioni più profonde. Il potere del voto viene visto come un veicolo svuotato, impotente e per certi versi obsoleto. Così la crisi della democrazia rappresentativa si mangia anche gli strumenti della democrazia diretta. Al referendum sei tu che diventi legislatore direttamente, non devi delegare nessun altro, ma evidentemente nemmeno questa responsabilità ti mobilita e ti fa uscire di casa la mattina per andare alle urne.
Questo è uno scenario globale, ma nello specifico di questa campagna referendaria?
Si è combattuto a mani nude. L’informazione sul referendum è stata data con il contagocce dalla televisione pubblica, i principali media hanno scelto di raccontarla come una partita tutta politica e non come una sfida sul merito di temi rilevantissimi che riguardano la precarietà, le morti sul lavoro, l’inclusione di milioni di persone nel tessuto democratico e civile del paese. Temi che parlano del presente e del futuro di questo paese. Perché da domani i lavoratori italiani non avranno una condizione di lavoro migliorata, al contrario rischia di sdoganarsi l’idea che tutto sommato il mondo va bene così. La destra ha martellato il proprio elettorato chiedendo un atto di fede sull’astensionismo per avere poi mano libera per completare il suo disegno strategico: far saltare il contratto collettivo nazionale e aprire definitivamente la strada al sindacato corporativo. Descrivono l’Italia come una sorta di “Mulino Bianco” dove i posti di lavoro aumentano e la gente sorride, ma i dati dicono altro: cresce la precarietà, la produzione industriale cala e il potere d’acquisto di chi lavora è in caduta libera. Vorrei sommessamente ricordare che la stessa Meloni che al congresso della Cisl qualche mese fa – tra gli applausi di una parte della platea purtroppo – aveva definito il sindacato che promuove il conflitto sociale come “tossico”. Pensano di avere vinto: ho maturato tuttavia la convinzione che se abitui il tuo elettorato a considerare il voto “una cosa come un’altra”, prima o poi l’astensionismo finirà per punire anche te. Irridere quasi 15 milioni di persone al voto è un autogol. Se ne accorgeranno presto.
Di crisi democratica ha parlato il segretario della Cgil, ammettendo l’insuccesso.
Il 57 per cento alle elezioni politiche del 2022, il 49 alle elezioni Europee del 2024, moltissime amministrative e regionali sotto il 50. Sono numeri che ci dicono che la democrazia è ormai come un campo di calcio dove la partita si gioca solo nella metà del rettangolo. Ovvero il 50 per cento degli aventi diritto, il resto diserta tutte le competizioni. Chi sconfina anche una piccola porzione della metà campo lasciata vuota riesce a riaprire davvero la partita della contesa politica. Deve essere questo il nostro assillo. Anche perché se tutto si svolge nei cinquanta metri, prevalgono gli istinti peggiori, la democrazia si riduce a tifoserie ed è l’acqua dove nuota meglio la destra. Che non solo fa direttamente campagna astensionista, rivendica il diritto di andare al mare, ma addirittura si rifiuta di parlare del merito dei quesiti.
Ma è normale la sceneggiata della Meloni? O le frasi di La Russa? Addirittura, oggi dice, gli elettori sono schifati. E da chi se non dalla sua protervia? Ma se chi governa invita esplicitamente al disimpegno, la disaffezione cresce, diventa “autorizzata”. È la fine della funzione pedagogica delle classi dirigenti, il paese trasformato in un enorme bar dello sport. La Presidente del Consiglio non ha mai rivelato come la pensava su questioni come precarietà e sicurezza sul lavoro. Abbiamo leader che governano le cui opinioni sono ignote, sanno mobilitare solo il proprio elettorato contro il nemico.
Dicono: Elly Schlein è stata succube di Landini, ecco i risultati…
Ma dove doveva collocare Elly Schlein il Partito democratico se non a fianco dei promotori dei referendum? E come doveva pronunciarsi se non con cinque sì che allargavano diritti a tutti e non ne toglievano a nessuno? Dobbiamo solo ringraziare la segreteria perché non si è fatta intrappolare nei tatticismi e ha tenuto una linea coerente con le ragioni di fondo del suo impegno politico. Leggo ricostruzioni in queste ore che non mi convincono, dibattiti astratti su rese dei conti con il passato e scarsa attenzione al futuro. L’unica resa dei conti che mi interessa è quella contro la precarietà del lavoro che uccide proprio il futuro delle giovani generazioni. Siamo d’accordo su questo o no? I referendum offrivano l’occasione per riparare ad alcune ingiustizie palesi, che hanno abbrutito le relazioni economico sociali lasciando spazio alla legge del più forte. Perché la battaglia per la reintegra in caso di licenziamento illegittimo è una questione meramente di potere: se tu squilibri il rapporto tra impresa e lavoro soccombe sempre la parte più debole. Il lavoro resta frammentato e diviso e le tutele sono diventate decrescenti tra subappalti, contratti a termine, voucher e somministrazione. A proposito: a chi fa la lezioncina in queste ore spiegando che la priorità sono i salari e non le leggi sul lavoro, vorrei ricordare che il nesso tra la precarietà e le retribuzioni povere è innegabile. Sennò anche la battaglia per il salario minimo finisce per essere interpretata quasi come una questione di carità, mentre invece è una leva per modificare il modello di distribuzione del reddito e dunque della struttura di potere nel nostro paese.
Lei è tra quelli che hanno battuto in lungo e largo l’Italia per la campagna referendaria. Sulla base di questa esperienza e alla luce dei risultati dell’8-9 giugno, come ne esce il PD?
Al PD ha fatto bene questa campagna referendaria. Stare per settimane tra aziende, mercati, piazze per parlare di lavoro e non per proporre una faccia da candidare ha riconnesso il nostro partito con tante persone che si erano allontanate. E ha anche ricostruito un rapporto con la Cgil che resta la più grande organizzazione dei lavoratori di questo paese. Si fanno le battaglie che si ritengono giuste anche quando sai che sono difficilissime da vincere. Altrimenti è meglio cambiare mestiere. Perché per mantenere l’Italia così come è, basta la destra.
E adesso, che fare, avrebbe detto l’uomo col pizzetto?
Da questo patrimonio di partecipazione non dobbiamo tornare indietro e dobbiamo chiedere al governo di non voltarsi dall’altra parte. Milioni di persone hanno chiesto di cambiare ad esempio la struttura degli appalti nel nostro paese per garantire più sicurezza ai lavoratori: quella forza va esercitata, deve diventare potere negoziale. Può bastare davvero la finzione della patente a crediti proposta dal Ministro del Lavoro per fermare questa mattanza quotidiana? Io credo di no. Giovedì quando la Ministra Calderone verrà in aula per relazionare sullo stato di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro glielo ribadiremo con forza. Va chiusa la stagione dei subappalti a cascata che in nome del profitto tagliano sulla cosa più importante: la vita delle persone.
A esultare sono coloro che hanno messo in relazione la manifestazione di Roma sulla Palestina e gli esiti del referendum: piazze piene, urne vuote…Con il condimento avvelenato dell’accusa di antisemitismo e di filo-Hamas.
La piazza per Gaza è stata una boccata d’ossigeno, ha raccontato un’altra Italia che non si rassegna, che vuole restare umana davanti alla barbarie. Molti opinionisti avevano rappresentato quella manifestazione come pericolosa, a rischio violenza, a sostegno di Hamas e dal timbro chiaramente antisemita. Una demonizzazione vergognosa. Sinistra e pace invece sono sempre stati sinonimi nella storia italiana. Questo governo invece non muove un dito per fermare il conflitto, rompe con una tradizione decennale di dialogo e di proiezione sul Mediterraneo nel nostro paese. È complice di una pulizia etnica anche perché non ha mai fermato il flusso d’armi verso Tel Aviv, non ha aderito alla possibilità di rivedere il trattato Ue-Israele e continua a rifiutarsi di riconoscere lo stato di Palestina. Anche fare meno di zero significa essere complici. Meloni e Tajani non contano niente perché hanno deciso di non disturbare il manovratore ovvero Trump e il suo collateralismo con la destra israeliana. Hanno rinunciato a qualsiasi leva diplomatica. Pensare che c’è stata una stagione in cui l’Italia faceva l’Italia, si caratterizzava come vettore di dialogo e fluidificava le relazioni tra le parti in conflitto. Durante la crisi del Libano del 2006, Prodi Presidente e D’Alema Ministro degli Esteri, il governo italiano costruì con la risoluzione Onu 1701 la missione Unifil II, mettendosi alla guida della forza di interposizione che tuttora è presente dopo quasi 20 anni. Anche allora Israele era contraria – e c’era Olmert alla guida del Governo israeliano, non il falco Netanyahu – ma si andò dritto, unendo l’Europa e convincendo anche gli americani che erano riottosi. Perché la stabilità del Medio Oriente era un interesse innanzitutto europeo. Oggi invece sembra vigere un doppio standard insopportabile dove il destino dei palestinesi sembra essere solo morte, oppressione e deportazione. Se non si ferma questa spirale, i governi occidentali avranno un enorme problema interno, con una generazione di ragazzi e di ragazze che non crederanno più nella promessa delle democrazie come depositarie del primato dei diritti umani.