Il nuovo saggio
Così il turbocapitalismo populista ha riscritto la storia: “Senza riparo”, il nuovo saggio di Guido Mazzoni
L’Occidente ha imposto il totem liberista dopo la caduta del Muro: si parlò di fine della storia. Poi però arrivarono l’11 settembre e il Covid: grazie alla paura apocalittica Trump ha trionfato
Cultura - di Filippo La Porta

Guido Mazzoni, studioso di letteratura, oltre che poeta, si propone per la seconda volta – dopo I destini generali (2015) – come interprete originale della contemporaneità – Senza riparo (Laterza) – , usando immaginazione sociologica e percezione personale (fallibile, certo, ma non disponiamo di altro). Anche perché oggi chi ha davvero i titoli per parlare di politica? Ora, in quanto anche io “dilettante” della politica proverò a dialogare con Mazzoni. Chissà che lo scambio tra due non esperti, orfani di ideologie però memori della tradizione del pensiero critico, possa risultare utile.
Il titolo proviene da una frase di Calvino, che nel 1961 parlava di tutta quella gente che in Italia, e in Europa guardava alla Guerra Fredda sentendosi “al riparo”. Una sensazione durata a lungo, e nemmeno sfiorata dal rischio concreto di guerra atomica (Cuba nel 1962 e ed errore dei radar nel 1983). Trent’anni dopo quella stessa gente – una sterminata classe media che occupa i tre quarti della società – continuava a sentirsi più o meno legittimamente al riparo: crollo del Muro, trionfo del capitalismo e sua affermazione come unico modello possibile, illusione di una fine della Storia. Successivamente però, con l’11 settembre, la crisi finanziaria del 2008 e l’esplosione della Grande Migrazione, quella sensazione comincia a vacillare, per ragioni economiche, geopolitiche, ecologiche e tecnologiche. L’apocalisse si installa al centro dell’immaginario. A ciò si aggiunga la pandemia del Covid: in Italia quasi 200.000 morti su 60 milioni (nella Seconda Guerra Mondiale 445.000 morti su una popolazione di 44 milioni). Anche se è stata presto rimossa poiché non implicava un nemico umano!
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Nel conflitto tra cultura liberal, espressione di una nuova borghesia (cosmopolita, ironica, disinibita, ipersensibile ai diritti della persona) e un’opinione pubblica di destra sempre più radicalizzata, xenofoba e “patriottica”, meno istruita e spaventata dalla globalizzazione, più manipolabile da parte di neopopulismi autoritarii, sembra largamente prevalere la seconda. Fa bene l’autore a ricordarci che l’egemonia del Western way of life nella seconda metà del secolo scorso dipende non tanto dalla democrazia parlamentare quanto dalla capacità di immergere le persone “in bolle di benessere, sicurezza e autonomia percepita”. Ora, la crisi del modello di vita occidentale nasce dalla dissoluzione dei legami, dal venire meno di ogni terreno etico comune e di ogni patto sociale. L’autoritarismo dei populismi di destra ha successo perché non chiede la soggezione del cittadino allo stato, piuttosto insiste sugli individui, la famiglia, la libertà privata. Qui arriviamo al cuore del libro di Mazzoni.
Kant (e l’illuminismo) sbagliava nell’assumere come ideale la vita guidata dalla ragione. E se gli esseri umani preferissero – all’esercizio dell’intelligenza critica – semplicemente giocare, sognare, non pensare, consumare in pace, delegare tutto a qualcuno (fatto salvo uno spazio di autonomia), liberi di essere e fare ciò che vogliono? Berlusconi, Grillo, Trump e Milei hanno interpretato coerentemente questa aspirazione, e anche perciò hanno in sé qualcosa di “palesemente infantile”. La Rete, creando un ambiente favorevole alla circolazione di idee senza riscontro, è stata il più fertile terreno di coltura di quei leader populisti. Le pagine su Trump e Berlusconi sono un felice esempio di ritrattistica: il primo esprime comunque un’idea paradossale di uguaglianza (la Coca-Cola di Warhol, comprata dai ricchi e dai poveri), “assomiglia ai suoi elettori e al tempo stesso ne è la versione riuscita… parla il loro linguaggio, non li vuole rieducare”, ed è “l’antitesi del salotto buono, l’outsider snobbato”; mentre il secondo era un seduttore nato, “alla mano e insieme superiore”, “non parlava di responsabilità ma vendeva speranze” e ha liberato gli italiani dai sensi di colpa. I leader legati all’habitus dirigenziale di una volta – estranei alla “rottura berlusconiana” – e cioè Monti, Gentiloni e Letta, non sono mai stati davvero popolari.
Torniamo alla riflessione antropologica di prima: lo stesso proletariato, lasciato a se stesso, non vuole la Rivoluzione e l’Uomo Nuovo, ma quel mix di libertà, sicurezza e benessere cui si accennava. In questo senso né la rivoluzione né la democrazia liberale erano l’esito necessario della modernità. Certo, ci sono i populismi e gli antisistemici di sinistra, e poi i partiti socialdemocratici superstiti, che tentano di salvare le conquiste dello stato sociale, però secondo Mazzoni non possono governare senza tradire le proprie idee poiché “il loro radicamento nel senso comune è debole”. Ma da cosa potrebbe ripartire la sinistra, oggi percepita quasi ovunque come élite supponente, autoriferita o come soggetto politico anacronistico? Mazzoni suggerisce una stimolante lettura del ‘68, che aveva due anime, una edonistica, anarchica, individualista, trasgressiva, etc. che in sé è compatibile col capitalismo, “anzi ne è il portato”, come sapevano Aron, Pasolini e Lasch. Il che, beninteso, non ne minimizza le conquiste civili, l’espansione di libertà e diritti! Ma solo l’altra anima del ‘68, quella utopica della giustizia sociale e della solidarietà universale, è davvero sovversiva, contrasta cioè con la logica delle moderne società differenziate, fondate su divisione del lavoro e rigide gerarchie.
Ora, pur concedendo alle tumultuose assemblee del ‘68 di raccogliere l’eredità della Comune di Parigi, dei soviet e della democrazia consiliare (in parte furono invece la tribuna di leader prepotenti e minoranze agguerrite) come rilanciare oggi quella “utopia comunista”, su quali basi? Forse aveva ragione Cohn-Bendit in una celebre conversazione con Sartre nel ‘68: obiettivo non è la presa del Palazzo d’Inverno ma trasformare le relazioni tra gli esseri umani nella vita quotidiana, la quale è ben più reale della Storia (anche se apparentemente meno avventurosa e meno eroica), costruire una comunicazione libera dal dominio e da ogni gerarchia naturale. Creare una società diversa dentro questa società, come raccomandava Camus. Un impegno che si gioca tutto qui ed ora (il futuro è irreale): Vittorio Foa negli anni 80 scrisse un aureo libretto contro ogni Gerusalemme rimandata.
L’unica vera rivoluzione dei Settanta fu in tal senso quella femminista, con la radicale “critica della vita” che implicava (strano che Mazzoni non le dedichi spazio). La “comunità” non riguarda il sol dell’avvenire ma è impegno per ciascuno di noi, nella vita privata e nella sfera pubblica, nelle pratiche di cittadinanza e nella micropolitica dei comportamenti quotidiani. Sottrarsi al gioco del potere, dare vita a “fràtrie” disinteressate e solidali. Tutto ciò inciderà sui rapporti di produzione? Probabilmente no, o non nell’immediato. Ma partecipare a questa “comunità” è l’unico modo per sentirsi un po’ al riparo.