Il voto nei comuni con più di 15mila abitanti
Elezioni comunali, così la destra vuole fermare la sinistra
Doppia manovra a tenaglia: abbassa il quorum al 40%, per essere eletti al primo turno e attribuisce alle liste collegate sempre e comunque il 60 % dei seggi
Politica - di Salvatore Curreri

Offuscata da altre riforme (premierato, separazione delle carriere, autonomia differenziata) ben più importanti – non foss’altro perché costituzionali – che la maggioranza di governo sta cercando di portare avanti con sempre più gravi strappi procedurali, quella sull’elezione dei Sindaci nei Comuni con più di 15 mila abitanti rischia di passare in secondo piano.
Essa, invece, merita attenzione non solo perché i Comuni sono gli enti più prossimi ai cittadini ma anche perché la riforma che la maggioranza sta cercando di portare avanti solleva seri dubbi d’incostituzionalità. Con il disegno di legge presentato dai capigruppo al Senato dai quattro partiti della maggioranza (Malan, Romeo, Gasparri e Biancofiore), attualmente all’esame della Commissione Affari costituzionali del Senato, si vorrebbe, infatti, diminuire dal 50 al 40 per cento la soglia perché un Sindaco possa essere eletto al primo turno per evitare – si sostiene – che, come accaduto a Udine e a Campobasso, sia paradossalmente eletto al secondo turno di ballottaggio un candidato che ha preso meno voti di quelli ottenuti al primo turno dal candidato sconfitto. Una motivazione infondata perché i dati dimostrano che dal 1993 ad oggi nelle 147 elezioni comunali svoltesi nei 21 capoluoghi di regione o di provincia autonoma, solo in 12 casi (contro 64) il ballottaggio è stato vinto dal candidato piazzatosi secondo al primo turno e, tra questi, appena 6 sono stati i casi in cui il Sindaco così eletto ha preso meno voti rispetto a quelli del suo avversario al primo turno.
Il vero è – senza tanti giri di parole – che il centrodestra vuole diminuire il quorum per l’elezione dei Sindaci per avere maggiori chance di successo visto che è in grado più facilmente del centrosinistra di coalizzarsi sin dal primo turno. Ma c’è di più, molto di più, perché, come si suol dire, il diavolo si nasconde nei dettagli e ciò è quantomai vero quando si tratta di leggi elettorali. Difatti, il disegno di legge vorrebbe abrogare l’attuale condizione per cui il premio di maggioranza del 60% dei seggi non scatta se le liste collegate al Sindaco eletto al primo turno non raggiungono il 40% dei voti validi. Infatti, che le liste ottengano un risultato elettorale diverso da quello del Sindaco cui sono collegate è oggi possibile grazie al voto disgiunto per cui l’elettore può votare solo per un candidato Sindaco oppure nella stessa scheda per un candidato Sindaco e per una lista a lui NON collegata (una schizofrenia politica spiegabile solo con il fatto che a livello locale ormai si vota per le persone anziché per i partiti, quasi scomparsi a livello locale, assorbiti dalle moltissime liste c.d. civiche).
Ebbene, se la riforma proposta venisse approvata, potrebbe accadere che le liste collegate ad un Sindaco eletto non più a maggioranza ma al primo turno con appena il 40% dei voti validi potrebbero ottenere comunque il 60% dei seggi, indipendentemente dalla percentuale di voti ottenuti. Così, per fare un esempio, le liste collegate con il 30% dei voti prenderebbero il 60% dei seggi! Un’eventualità che le leggi di Sicilia e Friuli Venezia Giulia, richiamate come esempi dal disegno di legge in questione, non a caso non prevedono. La riforma, quindi, propone una doppia manovra a tenaglia contro i principi democratici: da un lato, abbassa il quorum per essere eletti Sindaci al primo turno dall’attuale 50 al 40 per cento; dall’altro, attribuisce alle liste collegate sempre e comunque il 60% dei seggi (con l’unica e quasi impossibile eccezione che le liste collegate ad un candidato sconfitto abbiano ottenuto più del 50% dei voti validi).
Mi pare evidente che un sistema siffatto si espone a forti rischi d’incostituzionalità perché assegnerebbe alle liste collegate ad un Sindaco di minoranza un premio di maggioranza senza soglia e potenzialmente abnorme, ben oltre il range fissato dalla Corte costituzionale. È stata, infatti, la stessa Corte costituzionale, nelle due sentenze in cui si è pronunciata sulle due precedenti leggi elettorali nazionali (la legge Calderoli del 2005 e l’Italicum del 2015), a stabilire, per un verso, che un premio di maggioranza senza soglia minima di voti è incostituzionale, per altro verso che è legittimo un premio di maggioranza solo entro il 14-15% così da consentire al gruppo di liste che abbia ottenuto almeno il 40% dei voti di ottenere il 54% dei seggi.
In democrazia, le leggi elettorali devono sempre cercare di conciliare stabilità di governo e rappresentatività politica delle assemblee elettive. La riforma che si vorrebbe introdurre a livello locale sacrifica eccessivamente la seconda sull’altare della prima, esaltando oltre ogni ragionevole misura l’elemento personalistico-maggioritario dell’elezione diretta del sindaco su quello democratico. Se a tutto questo si aggiunge che per la prima volta si vorrebbero introdurre modifiche di parte ad una legge – quella comunale – che dal 1993 ha dato buona prova di sé, garantendo stabilità al governo locale e che per questo è stata finora immune dalle continue riforme invece approvate sulla legge elettorale nazionale – ci sono abbastanza argomenti per concludere che quella proposta è una riforma fattualmente non necessaria, politicamente inopportuna e costituzionalmente illegittima.