La strategia della premier

Separazione delle carriere, Meloni punta sul referendum per non rischiare sul premierato…

Chiamare gli italiani alle urne sul premierato? Troppo rischioso. In caso di sconfitta dovrebbe lasciare. La premier vira su una battaglia più popolare

Politica - di David Romoli

11 Dicembre 2024 alle 13:00

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Foto Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse
Foto Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse

In politica la capacità di cambiare strategia repentinamente se e quando necessario è una dote importante. Giorgia Meloni, all’apparenza piuttosto rigida, ha dimostrato invece di saperlo fare quando ha deciso di giocarsi la partita delle riforme non sul premierato, come era intenzionata a fare nel primo anno di governo, ma sulla separazione delle carriere. Si scrive riforme, si legge referendum.

Portare al traguardo entro la legislatura almeno una delle due riforme costituzionali promesse è importante in sé ma lo è altrettanto poter affermare di averlo fatto non solo con un atto d’imperio della maggioranza ma grazie al sostegno popolare. Quando il viceministro della Giustizia Sisto dice apertamente di volere il referendum, “la soluzione migliore”, non fa di necessità virtù. Il governo ha bisogno di una vittoria nelle urne che legittimi per intero l’intenzione di modificare profondamente la Costituzione.

La premier era partita lancia in resta per fare del suo premierato, “la madre di tutte le riforme” la sede naturale per l’ordalia elettorale. Quella è la riforma alla quale tiene davvero. Su quel fronte voleva incassare il plebiscito popolare che l’ avrebbe resa nei suoi disegni madre della patria. Ma è stata rapida e lucida nel cogliere le controindicazioni. Ha capito che vincere nelle urne non sarebbe stato poi così facile, con una riforma malscritta e un argomento in mano all’opposizione tanto contundente quanto la difesa del capo dello Stato, la figura più rassicurante per gli italiani. Si è resa conto che anche in caso di vittoria avrebbe dovuto poi modificare la legge elettorale prima delle prossime elezioni e di leggi elettorali altrettanto vantaggiose per la destra sul mercato non se ne trovano.

Infine, ma forse soprattutto, ha dovuto prendere atto dell’impossibilità di separare il voto sul premierato da quello sulla sua persona: in caso di sconfitta sarebbe stato un funerale politico, come sa bene Matteo Renzi. Senza alcun imbarazzo Meloni ha quindi tirato fuori dal cassetto la riforma che, in partenza, era destinata ad ammuffire nel medesimo almeno sino alla prossima legislatura: la separazione delle carriere. Dunque è su quella strada che ora il governo va di corsa. Prima approvazione in gennaio. Seconda lettura, almeno nei progetti, in luglio e male che vada sarà settembre. Referendum nei primi mesi del 2026, tempistica perfetta per tirare la volata alle elezioni politiche dell’anno seguente. Naturalmente con questa legge elettorale: se anche il Parlamento approverà in doppia lettura il premierato il referendum sarà comunque rinviato alla legislatura successiva.

La separazione offre numerosi vantaggi. Prima di tutto, a differenza del premierato, non sarà votato solo dalla maggioranza e il sostegno dei centristi, Iv, Azione e + Europa, permetterà di negare che si tratti di una modifica della Carta imposta con le cattive dalla maggioranza. Oltre ad aumentare il numero degli elettori favorevoli a confermare la scelta del Parlamento. In secondo luogo non dovrà fare i conti con un’istituzione molto amata dagli italiani come la presidenza della Repubblica ma con una magistratura forse mai così impopolare negli ultimi trent’anni. Infine, last but not least, trattasi di una riforma che porta la firma di Forza Italia, non di FdI e della sua leader. Se anche dovesse uscire sconfitta la premier non sarebbe obbligata a passare la mano, come nel caso del premierato, e tutto sommato l’effetto boomerang sarebbe limitato.

Dunque la maggioranza si prepara a fare della separazione delle carriere, già Cenerentola tra le riforme promesse alla vigilia del voto, una sorta di Armageddon, la battaglia campale nella quale verificare chi ha la maggioranza degli italiani dalla propria parte e chi no. Le scelte del governo sui vari “bavagli”, sia per la magistratura che per i giornalisti, sono state dettate dall’esigenza di evitare in anticipo di restituire al popolo votante l’immagine di una maggioranza pregiudizialmente ostile alle toghe. Non valeva la pena di recarsi un tale danno d’immagine per punire i magistrati che esprimono pubblicamente il loro parere sui temi all’ordine del giorno, decreto cestinato, o per farla pagare ai giornalisti che pubblicano virgolettati delle ordinanze di custodia cautelare, decreto svuotato dalla decisione di non sanzionare chi lo dovesse violare.

È il premierato, la solita “riforma madre”. Ma in realtà è in bilico. Il progetto sarebbe quello di approvarlo prima della scadenza della legislatura per poi sottoporlo a referendum poco dopo le elezioni politiche. Ma è anche vero che la dilazione permette di considerare la possibilità di rimettere mano a una riforma che la premier sa perfettamente essere fatta peggio che male. In fondo il referendum arriverà comunque a ridosso della scadenza del mandato di Sergio Mattarella. È possibile che riemerga la tentazione di mettere da parte l’abborracciato e inutile tentativo di mediazione detto “premierato” per tentare l’azzardo di un vero presidenzialismo.

11 Dicembre 2024

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