Dopo la brutta performance ligure
Perché Meloni rallenta sul premierato: “Meglio tenersi questa legge elettorale”
Seppur vinte, le ultime regionali dicono che a destra i voti sono vasi comunicanti. Con una nuova legge elettorale la coalizione franerebbe. Giorgia ora punta sulla separazione delle carriere
Politica - di David Romoli

Per una riflessione su quell’aspetto del voto ligure che non fa sorridere i Fratelli di Giorgia, consensi dimezzati rispetto alle europee di pochi mesi fa, bisognerà aspettare le regionali di novembre. Con l’Emilia e soprattutto l’Umbria in bilico di mezzo nessuno in via della Scrofa ha voglia di farsi del male da solo ponendosi domande spiacevoli. Ma in realtà è improbabile che quella riflessione arrivi anche dopo le regionali del 17 novembre.
La parola d’ordine che ripetono tutti gli esponenti di FdI, tanto monotona da far subodorare l’ordine di scuderia, è che quei voti sono andati alle liste civiche e non se ne parli più. Perché mai ci si dovrebbe chiedere com’è che le suddette liste hanno dragato solo i voti tricolori e non quelli della Lega, di FI o, sul fronte opposto, del Pd? La scelta del capo, in questo caso Arianna Meloni, è sbrigativa: “Il centrodestra in Liguria ha preso 15mila voti in più: è andata benissimo”. Non che alla Sorellissima si debba dare torto su tutta la linea, sia chiaro. Il risultato del voto in Liguria, insperato fino a pochissime settimane fa, è davvero brillante e quei voti in più, dopo uno scandalo come quello che ha travolto Toti, sono un segnale molto più che rassicurante. Però il dato dice anche qualcosa sulla natura del centrodestra e sul ruolo di FdI al suo interno, e fingere di non vederlo è da parte dei leader di quel partito miope.
In effetti gli elettori della coalizione che ha vinto in Liguria (e in altre 9 regioni su 11 complessive negli ultimi due anni) sono in larga maggioranza prima di tutto elettori di destra e poi del singolo partito. Sono osmotici. Non vanno troppo per il sottile. La forza della coalizione non è in discussione, quella dei singoli partiti, come il caso dell’ascesa e crollo di Salvini aveva già dimostrato, invece sì. Giorgia Meloni si trova in posizione dominante perché è il leader della coalizione, l’unico possibile al momento e non è detto che sia così anche domani. La postazione della premier è opposta a quella di Berlusconi, soprattutto nella prima fase della sua avventura politica. Il Cavaliere doveva la corona al fatto di essere il capo del partito di gran lunga più forte e più ricco, che era uno strumento nelle sue onnipotenti mani e la cui centralità assoluta era indispensabile per federare forze che altrimenti si sarebbero azzannate. Il partito di Giorgia deve la sua forza al solo fatto di essere appunto il partito della leader della destra.
Le implicazioni di questo slittamento subìto dal centrodestra dall’epoca di re Silvio a quella di Meloni sono notevoli: prima di tutto obbligano e sempre più obbligheranno la leader di FdI a non agire soprattutto come capopartito, come era portata a fare agli inizi della sua ascesa. Poi moltiplicano il peso specifico di tutte le componenti della coalizione stessa, ciascuna essendo indispensabile. La Liguria, realtà locale ma che per diverse contingenze ha messo sotto i riflettori una realtà complessiva del Paese, ha dimostrato anche ai meno lungimiranti quanto il vantaggio della destra sugli avversari sia dovuto solo all’essere una coalizione vera, con una visione di fondo realmente comune e regole non scritte ma fedelmente seguite che evitano incidenti non recuperabili. I leader del centrodestra ne sono consapevoli e probabilmente soprattutto per questo la premier ha deciso di cambiare cavallo nella corsa delle riforme, rallentando il suo premierato e accelerando invece a tavoletta la marcia della separazione delle carriere, con l’obiettivo di arrivare al referendum confermativo già per la fine del 2025 o per i primissimi mesi del 2026.
La stessa Giorgia spiega il rallentamento sull’elezione diretta del premier con la difficoltà nel mettere tutti intorno al tavolo dove si dovrebbe discutere di legge elettorale. In un Paese che è privo di una vera legge elettorale da 18 anni è difficile negare che quella difficoltà ci sia ma a consigliare di puntare sulla giustizia invece che sulla forma di governo sono soprattutto altre considerazioni. In parte c’è di sicuro il livore della premier, decisa a dare una lezione alle toghe dopo il fattaccio albanese. In parte pesa un calcolo calibrato sulla propaganda avversaria: il cavallo di battaglia dei referendari sarà la difesa del capo dello Stato, che è un’istituzione ma che gli elettori identificheranno probabilmente con l’uomo che oggi incarna quella istituzione, Sergio Mattarella. Se si arrivasse al referendum all’inizio della prossima legislatura, con il secondo mandato di Mattarella vicino alla scadenza, quella lancia sarebbe almeno in parte spuntata.
Ma la considerazione principale, probabilmente, riguarda davvero la legge elettorale. Introdurre l’elezione diretta imporrebbe il cambio di quella legge ed emergerebbero subito le differenze tra le preferenze dei singoli partiti della destra su uno dei pochi temi, forse l’unico, sul quale comporre le contrapposizioni è molto difficile perché in ballo c’è la sorte stessa dei partiti. Ma soprattutto una legge migliore di questa, per chi ha nella propria natura di coalizione politica il punto di forza, la destra non la ha trovata e probabilmente non esiste. Molto meglio dunque arrivare alle prossime elezioni con questa legge e con le garanzie che regala e poi, con cinque anni di tempo davanti, affrontare lo spinoso nodo della legge elettorale.