Lo scandalo in un libro
Internati, abbandonati, dimenticati: quei detenuti figli di un Dio minore
“ Un Ossimoro da cancellare” di Giulia Melani, con contributi di Franco Corleone, Katia Poneti e Grazia Zuffa, illumina a giorno i margini estremi della marginalità più estrema. Dove chi è bollato col marchio della “pericolosità sociale” vive rinchiuso o sotto sorveglianza, in balia dell’incertezza: una condizione peggiore della detenzione in carcere
Giustizia - di Andrea Pugiotto

1. Caos calmo. Brivido caldo. Vergine madre. Morto vivente. False verità. Sono tutti esempi di ossimoro, figura retorica ottenuta dall’accostamento di due parole che si contraddicono. L’effetto linguistico è spiazzante a indicare qualcosa di assurdo e paradossale. “Case lavoro” non è un ossimoro, ma è come se lo fosse perché, in esse, apparenza e sostanza normativa si contraddicono. Meritano perciò di essere cancellate dall’ordinamento e sostituite con una diversa misura di sicurezza non detentiva, la libertà vigilata, riorientata costituzionalmente.
Questa è la tesi del libro di Giulia Melani, impreziosito da contributi altrettanto importanti di Franco Corleone, Katia Poneti e Grazia Zuffa. Un libro a matrioska, contenente tante cose: un saggio giuridico; una raccolta di eloquenti dati statistici criticamente rielaborati; una ricerca sul campo di cui si squadernano gli esiti e gli strumenti d’indagine; una ragionevole proposta di riforma legislativa (AC n. 158 del 2022, on. Magi). Nell’insieme, è un libro estremista, nel senso che illumina a giorno i margini estremi della marginalità più estrema, perché anche tra i soggetti ristretti ci sono, dimenticati, i figli di un dio minore. Come tutte le pubblicazioni promosse da La Società della Ragione, anche Un ossimoro da cancellare. Misure di sicurezza e case lavoro (Edizioni Menabò) è uno strumento di lotta politica. Lo sono i volumi più preziosi, perché – come diceva Umberto Eco – il modo migliore di leggere un libro è usarlo.
2. Di cosa parliamo quando parliamo di misure di sicurezza? Tra esse, quali peculiarità presentano le case lavoro? Il telaio che tutto regge è il “doppio binario” introdotto dal codice penale del 1930 (IX dell’era fascista), scandalosamente tramandato dall’Italia monarchica all’Italia repubblicana. Per il codice Rocco, la pena serve a sanzionare il reo imputabile (perché «se posso rimproverarti, ti punisco»). La misura di sicurezza, invece, si rivolge a chi è giudicato socialmente pericoloso. Può esserlo il reo incapace d’intendere e di volere, dunque non imputabile, che andrà prosciolto ma “contenuto” (perché «se non posso punirti, devo comunque difendermi da te»): finirà internato in una casa di cura e di custodia o in un ospedale psichiatrico giudiziario (oggi r.e.m.s.) o in un riformatorio giudiziario. Può esserlo anche il reo che, espiata la condanna, è giudicato ancora socialmente pericoloso (perché «anche se ti ho già punito, devo comunque difendermi da te»): finirà internato in una colonia agricola a lavorare nei campi o in una casa di lavoro a svolgere attività artigianali o industriali. Nelle istituzioni totali, si sa, il lavoro rende liberi.
Per il codice, dunque, pena e misura di sicurezza detentiva scorrono lungo binari paralleli. Diverse nei presupposti, lo sono anche per natura (penale l’una, amministrativa l’altra) e per funzione (retributiva e rieducativa l’una, precauzionale e riabilitativa l’altra). Il primo merito del libro è di svelare la finalità squisitamente politica di questo modello dualistico. Storicamente giustificato come superamento della «diatriba tra scuola classica e scuola positiva di diritto penale», in realtà «garantiva un ventaglio ampio di strumenti repressivi, utili per uno Stato autoritario. Le misure di sicurezza, infatti, non offrono le garanzie del diritto penale classico e si presentano come misure amministrative di polizia».
3. Nella realtà, pena e misura di sicurezza si rivelano gemelli siamesi. Sul piano fenomenico, innanzitutto. I nomi sono fumo negli occhi: le case lavoro sono un «parcheggio d’anime» in sezioni di istituti penitenziari, «strutture in tutto identiche, con regolamenti analoghi e analoghe attività trattamentali» e dove – salvo eccezioni – il lavoro è poco, non qualificato, scarsamente retribuito. Sul piano normativo, poi, una persona può essere – nel tempo e senza soluzione di continuità – detenuta e internata: non esistendo vicarietà tra i due meccanismi giuridici, l’uno non esclude l’altro. Abbiamo, così, una «duplicazione sanzionatoria» che accomuna pena e misura di sicurezza anche negli effetti segreganti. Eppure, su tale realtà, prevale l’abracadabra di un diritto penale che – davanti al socialmente pericoloso – maschera la punizione da misura di sicurezza. A questo conduce il sistema del doppio binario: ad un’autentica «truffa delle etichette», utile per negare all’internato «le tradizionali garanzie relative alla colpevolezza, alla proporzionalità, alla legalità, alla giurisdizionalità».
4. Sotto certi aspetti, addirittura, l’internamento è peggiore della detenzione: accade, ad esempio, per la sua durata. Il codice penale la predetermina nel minimo, superato il quale – se il soggetto è ancora socialmente pericoloso – la misura segregante viene prorogata. Di rinnovo in rinnovo, si subiva così un internamento senza fine: un «ergastolo bianco». Per evitarlo, la legge n. 81 del 2014 ha introdotto una regola che la Consulta (sent. n. 83/2017) riconosce applicabile a tutte le misure di sicurezza detentive: non devono superare il massimo della pena edittale prevista per il reato commesso. Malgrado ciò, possono egualmente toccare vette dolomitiche: la durata media è tra 1 e 2 anni, ma non mancano internamenti in casa lavoro misurabili tra 6 e 10 anni, a volte tra 11 e 20 anni.
Quando poi la misura di sicurezza segue l’espiazione della condanna, il periodo di detenzione non si sottrae alla durata massima dell’internamento. Ne risulta un «tempo passato sotto controllo penale» (carcere + casa lavoro), mediamente pari a 8 anni e 7 mesi. Infine, l’internamento può essere seguito o sostituito dalla libertà vigilata, di durata indefinita: applicandola, il giudice aggira ogni limite temporale. E poiché la violazione delle sue prescrizioni giustifica un nuovo internamento, è possibile l’effetto “porte girevoli” tra misure di sicurezza, detentiva e non detentiva. Non stupisce, quindi, che «l’incertezza della durata e la discrezionalità delle proroghe contribuiscano a rendere la detenzione in casa di lavoro, per molti, insostenibile».
5. Lo “scambio” che indirizza il reo verso il binario del carcere o della casa lavoro scatta in presenza di una categoria risalente all’archeologia criminale: la pericolosità sociale. Il codice Rocco tipizza le figure del delinquente «abituale», «professionale», «per tendenza» (tale se rivela «una speciale inclinazione al delitto» e un’«indole particolarmente malvagia»). Con una mappa del genere il giudice naviga a vista, chiamato a un accertamento predittivo dall’incerta attendibilità e dalla dubbia scientificità. E poiché la pericolosità è una “qualità” del soggetto, il diritto penale del fatto lascia il posto al diritto penale d’autore, dove sei punito non per ciò che fai ma per ciò che sei e che – cabalisticamente – farai. Anche qui il libro è prezioso, laddove riporta le testimonianze raccolte nella casa lavoro di Barcellona Pozzo di Gotto. Leggerle è un esercizio istruttivo, perché chi parla è al tempo stesso colui di cui si parla. Nel complesso, le loro storie rivelano un quadro demografico di marginalità sociale tradotto in prognosi di pericolosità.
6. Le case lavoro sono un reperto illiberale, fallimentare, fonte di insensata sofferenza. Sono una pena dopo la pena. Se sopravvivono, è perché le vite di scarto non interessano a nessuno. In tutta Italia sono solo 8 (Alba, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castelfranco Emilia, Tolmezzo, Trani, Vasto, Venezia-Giudecca) cui si aggiunge un’unica colonia agricola (Isili). Vi sono internate circa 250 persone: poco meno dello 0,5% dell’intera popolazione carceraria. Rappresentano, dunque, «un fenomeno marginale nel complesso sistema penale». Eppure servono politicamente, incarnando un monito per tutti: oggi sono pochi, ma domani potrebbero essere di più, molti di più. Indipendentemente dal loro numero, gli ossimori non hanno cittadinanza in Costituzione. Vanno cancellati. Quando accadrà alle case lavoro, sarà vergognosamente troppo tardi.