L'ex viceministro dell'economia
Intervista a Enrico Morando: “Referendum sul lavoro? Il Pd decide in base alle alleanze”
“Il merito non conta nulla, una materia così delicata come il lavoro risente del vizio della sinistra italiana. Peccato che l’attenzione si concentri sul Jobs Act: così si penalizza il quesito sulla cittadinanza”
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Enrico Morando, leader dell’area liberal del Partito Democratico, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni Per aver sostenuto 5 sì ai referendum dell’8-9 giugno, Elly Schlein è stata accusata di subalternità a Landini e addirittura a Conte. Non è un po’ troppo?
Può darsi che dipenda da un fattore cronologico: il promotore dei quattro referendum è Landini e il primo leader di partito a dichiarare il suo sostegno è stato Conte. Schlein (allora si disse “a titolo personale“) si è aggiunta dopo. Ma questa è una lettura dei referendum sul lavoro che risente del principale vizio della politica della sinistra italiana in questa fase: ogni scelta viene letta in chiave di alleanze politiche passate, presenti o future. Non è importante cosa si dice, si propone, si contrasta: il merito non conta niente. E, come se non bastasse, questa degenerazione politicista investe anche la dialettica interna ai singoli partiti: una materia delicata come i referendum sul lavoro viene utilizzata non per interpretare meglio la realtà sociale, le potenzialità e i rischi insiti nelle innovazioni che attraversano questo mondo, ma come un’occasione per lanciare segnali sullo “spostamento a sinistra” dell’asse politico interno al singolo partito. Il risultato è quello di un crescente distacco tra la realtà economica, sociale e culturale del mondo del lavoro così come è oggi e il principale partito della sinistra, il PD.
Questa è una critica anche più severa di quella che, nella mia domanda, consideravo un po’ esagerata… Può spiegare meglio?
Ci provo, utilizzando il lavoro di analisi di Andrea Garnero, Marco Leonardi e Leonzio Rizzo (nessuno dei quali è ovviamente responsabile della mia interpretazione). Parto dal tentativo di rispondere con precisione ad una semplice domanda: qual è il problema principale-oggi, non 10 anni fa-del mondo del lavoro italiano? La mia risposta è quella che prevale presso la maggioranza dei lavoratori italiani: i salari sono troppo bassi. Se si cerca di capire cosa bisognerebbe fare per rimuovere le cause di questo problema, ci si trova prima di tutto dinnanzi al tema della specializzazione produttiva e delle dimensioni delle aziende italiane. È vero che la produttività media-del lavoro, del capitale e dei fattori-è relativamente bassa, ma quella delle imprese medie e grandi è vicina a quella delle imprese tedesche e francesi. È invece troppo bassa nelle microimprese. Da questa realtà, dovremmo dedurre indicazioni chiare per le nostre politiche: basta con regole fiscali, contrattuali e burocratiche che spingono le piccole imprese a non crescere per evitare penalizzazioni. L’applicazione dell’intelligenza artificiale al processo produttivo e alla progettazione dei prodotti (beni o servizi che siano) è un’occasione straordinaria per il nostro sistema economico. Con il superammortamento di Industria 4.0 i Governi del centrosinistra hanno aperto la strada. Ma il Governo Meloni ha pensato bene di cambiarla, senza che l’opposizione si scaldasse più di tanto…
Scusi, ma cosa c’entra tutto questo con il referendum sul Jobs Act?
Appunto: niente. Ma proseguiamo col ragionamento sui problemi reali: abbiamo detto che serve un sistema fiscale pro crescita dimensionale delle imprese. La risposta del Governo Meloni è la flat tax sotto gli 85.000 € di fatturato (irresistibile spinta a restare piccoli). Ma il sistema fiscale ha a che fare -eccome- anche con il salario dei lavoratori. In proposito, tutti i Governi di questi ultimi anni hanno cercato disperatamente di ridurre il cuneo fiscale. Sforzo meritorio, ma dal 2006 ad oggi la riduzione ottenuta è di un solo punto percentuale: dal 46,1 al 45,1 del 2023. Forse vale la pena di affiancare a questo sforzo un intervento più selettivo e coraggioso sul versante della tassazione sul reddito da lavoro delle donne, del premio fiscale alla contrattazione di secondo livello e, soprattutto, per l’eliminazione del drenaggio fiscale: se c’è inflazione elevata, il lavoratore deve subire un prelievo IRPEF analogo a quello dell’anno precedente, incrementato del tasso di inflazione. Come mai, contro lo scandalo del fiscal drag, non si leva alcuna “rivolta”? Altro problema: ci sono più posti di lavoro disponibili che lavoratori preparati a svolgerli. Tutti reclamano una svolta sul versante della formazione pubblica: sacrosanta rivendicazione, in un Paese che spende più per il servizio del debito pubblico che per il sistema di istruzione. Ma chiedo: continuiamo a considerare normale che le imprese spendano così poco, a paragone con quelle di altri paesi d’Europa, per la formazione dei loro lavoratori? Infine, la contrattazione: c’è stata nel 2024 una buona fase di rinnovo di importanti contratti nazionali. Ma i limiti della contrattazione nazionale sono evidenti a tutti da anni. Bisogna far leva sulla contrattazione di secondo livello: azienda, gruppo, filiera, distretto, territorio. Qui a resistere sono soprattutto le parti datoriali, ma anche la sinistra politica e il sindacato non sembrano prenderla a cuore. È indispensabile una vera e propria offensiva politica (nel discorso pubblico, in Parlamento) sulla democrazia economica e le regole (da fissare con legge) sulla rappresentanza sia dei lavoratori, sia delle imprese.
È un quadro analitico e di soluzioni interessante, ma non negherà che c’è un problema reale di eccesso di precarietà dei rapporti di lavoro…
Non lo nego affatto. Anzi. I dati ISTAT, mentre dimostrano che in questi anni di vigenza del Jobs Act il numero di rapporti con contratti a tempo indeterminato è cresciuto più di quelli a termine, continuano a segnalare che permane un tasso di precarietà elevato, anche se relativamente più vicino alla media europea di quanto fosse in passato. Quella che contesto è l’affermazione che sta alla base dell’iniziativa referendaria: volete combattere la precarietà? Abolite il contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Non sono d’accordo, perché questa affermazione viola il principio di non contraddizione: se nel periodo di vigenza del Jobs Act i contratti a termine sono aumentati meno di quanto hanno fatto i contratti stabili, questo può forse autorizzare a sostenere che il Jobs Act con questo andamento del mercato del lavoro non c’entra per nulla; ma certamente non autorizza proprio nessuno a sostenere un rapporto di causalità tra Jobs Act e precarietà.
Per restare alle critiche. C’è chi sostiene che la campagna del PD sui referendum è un regalo alla destra.
Non vedo il regalo alla destra. Se non nel senso che l’iniziativa sul Jobs Act autorizza la destra a starsene tranquilla, sostenendo che si tratta di un regolamento di conti interno alla sinistra. È un vero peccato che l’attenzione si concentri sul Jobs Act e il suo contratto a tutele crescenti (che, tra l’altro, non c’è più come tale, dopo gli interventi della Consulta e del Conte uno). Il referendum sulla cittadinanza -tra l’altro, molto più “fastidioso“ per il centrodestra, perché, come minimo, ne sottolinea le divisioni-, rischia di risultarne penalizzato, al fine del conseguimento del quorum. E basta fare un salto all’uscita delle nostre scuole elementari per capire quanto ci sarebbe bisogno del conseguimento del quorum e della vittoria del sì a questo referendum.
Dentro e fuori al PD, quando si vuol criticare la Segretaria si sostiene che non abbia una cultura di governo. Ci può spiegare in cosa consista questa cultura?
Rapporto costante e culturalmente onesto con la realtà, anche quando vi leggi qualcosa che non ti piace e che non corrisponde alle tue aspettative. Visione di lungo periodo, avendo la capacità di sacrificarle qualche punto percentuale nel sondaggio settimanale. Coerenza e realismo delle soluzioni, frutto dell’impegno delle competenze migliori presenti nel tuo campo. Sforzo costante di porsi di fronte al Paese come chi voglia interpretare e rispondere alle esigenze della maggioranza dei cittadini, così da distinguersi dai “movimenti“, che sono indispensabili elementi di dinamismo sociale, culturale e politico, ma non si pongono il problema del governo.
La seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, che annuncia urbi et orbi che farà campagna per il non voto. Lo stesso la Segretaria della Cisl…
Penso che La Russa sia preoccupato del referendum sulla cittadinanza. La posizione-su questo punto cruciale per il futuro del Paese-del partito cui appartiene, Fratelli d’Italia, è una delle ragioni di fondo per le quali, malgrado gli sforzi di Meloni, è improbabile che il principale partito della destra italiana entri a far parte del (o diventi sostanzialmente assimilabile al) Partito Popolare Europeo.
A proposito: la Presidente Meloni sembra incerta sul sostegno all’iniziativa dei “volenterosi”…
Più che incerta: accarezza l’idea di potersi mantenere nell’ambiguità, forse guardando alle posizioni di Salvini e di larga parte del suo elettorato. È un rischio enorme per il Paese: stanti le attuali regole (che dovranno essere cambiate, ma ci vorrà del tempo per farlo), l’Unione può procedere nel sostegno all’Ucraina e nel processo di costruzione del pilastro europeo della NATO solo attraverso cooperazioni rafforzate et similia (che devono comprendere anche il Regno Unito di Starmer). Il tempo dell’ambiguità sta dunque per finire: o dentro o fuori. Vale anche per il centrosinistra, ma vale in primo luogo per il Governo e la Presidente del Consiglio.
Di pace e lavoro ha parlato il nuovo pontefice Leone XIV.
Sul concetto di pace giusta colgo una confortante convergenza tra le parole di Leone XIV e quelle del Presidente Mattarella.
Ci siamo tenuti per ultima la domanda delle domande: cosa farà l’8-9giugno? Insomma, come voterà sui cinque referendum?
Ritirerò due schede. Quella sulla cittadinanza, per votare convintamente sì. E quella sulla responsabilità solidale di committente e appaltatore per la sicurezza del lavoro. Su quest’ultimo referendum, ho letto le preoccupazioni esposte da Pietro Ichino, che mi hanno convinto a scegliere il ritiro della scheda e il voto negativo.