L'indifferenza del governo

Cos’è la “Giusta Retribuzione”: la battaglia per il salario minimo e l’articolo 39 della Costituzione

L’articolo 36 della Carta impone una paga equa, ma non basta fissarla per legge. Il vero salto in avanti viene da una riforma della contrattazione collettiva e dalla piena attuazione dell’articolo 39

Politica - di Salvatore Curreri

31 Agosto 2023 alle 14:30

Condividi l'articolo

Cos’è la “Giusta Retribuzione”: la battaglia per il salario minimo e l’articolo 39 della Costituzione

Nell’attuale dibattito sul salario minimo c’è un grande assente: la Costituzione. Eppure in essa troviamo preziose indicazioni su come affrontare e, volendo, risolvere il problema di cosa sia la “giusta retribuzione” e come estenderla a tutti i lavoratori, iscritti o no ai sindacati. L’art. 39 della Costituzione, infatti, dopo aver proclamato al primo comma la libertà d’organizzazione sindacale, dedica i successivi alla contrattazione collettiva, delineando una procedura finora rimasta inattuata.

In base ad essa i sindacati che avessero dimostrato di avere “un ordinamento interno a base democratica” si sarebbero potuti registrare “presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge” , acquisendo così quella “personalità giuridica” di diritto pubblico in forza della quale, “rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti” (un organismo di compromesso tra la pluralità dei sindacati e la loro rappresentanza unitaria su base proporzionale), avrebbero potuto “stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.

Tali contratti collettivi, quindi, sarebbero stati efficaci non solo per i lavoratori iscritti ai sindacati, ma per tutti i lavoratori di categoria, inclusi quelli non iscritti ad alcun sindacato. Scopo dell’estensione a tutti i lavoratori dei contratti di lavoro stipulati da tali sindacati era duplice: favorire la registrazione dei sindacati, aumentandone il potere contrattuale e, allo stesso tempo, tutelare i lavoratori non sindacalizzati.

Tale meccanismo, come detto, è rimasto inattuato per varie ragioni: la scelta dei maggiori sindacati, specie della Cgil, di non registrarsi per non sottoporsi ai controlli statali sulla loro effettiva democrazia interna, ritenuti troppo penetranti e quindi in grado di limitare la loro autonomia organizzativa; l’ostilità dei sindacati minori verso un meccanismo di rappresentanza proporzionale che li avrebbe penalizzati rispetto ai maggiori; il rifiuto di un meccanismo che avrebbe consentito ad un organo amministrativo di verificare l’effettiva consistenza numerica e, di conseguenza, la rappresentanza dei sindacati in base ai loro iscritti.

Pertanto, oggi i contratti collettivi di lavoro stipulati oggi dai sindacati sotto il profilo civilistico valgono solo per i loro iscritti. E i lavoratori non iscritti? Possono applicarsi loro condizioni di lavoro e retributive peggiori rispetto a quelli iscritti ad un sindacato? Per risolvere il problema, dovuto alla mancata attuazione dell’art. 39, si cercò in un primo momento di recepire con decreti legislativi i contenuti minimi inderogabili di trattamento economico e normativo dei contratti di lavoro. Tale soluzione fu però bocciata nel 1962 dalla Corte costituzionale, anche perché – si badi – lesiva dell’autonomia contrattuale in materia disposta dall’art. 39 a favore dei sindacati e delle organizzazioni dei datori di lavoro.

Furono piuttosto i giudici a stabilire che le condizioni retributive e normative fissate nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi vanno estese a tutti i lavoratori di categoria perché s’identificano con la “giusta retribuzione” di cui all’art. 36 della Costituzione, secondo cui essa deve essere “proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare” al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”. Dunque il lavoratore non sindacalizzato cui fossero applicate condizioni peggiorative rispetto a quelle stabilite dal contratto di lavoro di categoria potrebbe ottenerne l’annullamento dal giudice.

Tale meccanismo è oggi però in crisi sia per la proliferazione dei contratti di lavoro cosiddetti pirata (272 sui ben 975 depositati presso il CNEL, riguardanti 387 mila lavoratori) firmati da sedicenti cooperative o da associazioni datoriali e sindacali di scarsa rappresentatività, che prevedono condizioni retributive e normative peggiori rispetto ai contratti collettivi firmati dai sindacati maggiori, che coprono quasi tutti i lavoratori dipendenti (13,6 milioni su 14); sia perché vi sono molti lavoratori (si stima circa 800mila) senza un contratto di lavoro collettivo, soprattutto nel settore agricolo, domestico, vigilanza privata e assistenza nelle Rsa.

Il risultato di questi due fattori è giustappunto il cosiddetto lavoro povero, cioè lavoratori che percepiscono salari sotto la soglia di povertà (nel 2019 quasi 3 milioni di lavoratori hanno percepito una retribuzione oraria inferiore ai 9 €) in spregio del principio della giusta retribuzione fissato dall’articolo 36 della Costituzione. Com’è noto, per contrastare tale fenomeno, anche su sollecitazione dell’Ue (direttiva del 25 ottobre 2022), si vorrebbe ora introdurre un salario minimo (per quanto l’Italia superi abbondantemente l’obiettivo di coprire con esso almeno l’80% dei lavoratori) o per legge oppure estendendo la contrattazione collettiva.

Questa seconda opzione è ritenuta preferibile in sede europea perché conduce a salari minimi più elevati. Essa inoltre evita soluzione dirigiste che, in caso di salari minimi per legge elevati (ciò che è minimo al Nord non lo è al Sud, dove il costo della vita è inferiore) potrebbe al contrario incentivare il lavoro nero. Infine, ma non per ultima, tale soluzione pare più rispondente alla preferenza costituzionale per l’autonomia delle parti sociali in materia di contrattazione collettiva, di cui ovviamente il salario è elemento cruciale, così da evitare “invadenze” legislative che un domani potrebbero tradursi in scelte politiche non corrispondenti ai reali interessi di imprese e lavoratori.

Certamente non esiste una competenza riservata a favore di tali contratti, per cui il legislatore può sempre emanare norme sui rapporti di lavoro, prevedendo trattamenti più favorevoli o in nome di superiori interessi generali, senza però mai annullare o comprimere l’autonomia collettiva “nei suoi esiti concreti” (così la sentenza n. 143/1998 della Corte costituzionale). In questa prospettiva potrebbe tornare utile scongelare il meccanismo dei contratti collettivi efficaci per tutti i lavoratori previsto dall’art. 39 della Costituzione, rimasto come detto ibernato per ragioni – il timore di controlli del governo sulla organizzazione interna dei sindacati – che dopo 75 anni di vita democratica sono ormai ampiamente superate.

Anzi si potrebbe aggiungere che l’esistenza di una organizzazione interna a base democratica, come prescrive la Costituzione, sia un requisito indispensabile per ogni associazione che partecipi attivamente alla vita politica e sociale del Paese (art. 18.2), a cominciare da partiti politici e sindacati. È vero che il Testo unico firmato il 10 gennaio 2014 da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil commisura la rappresentanza in base non solo al numero di iscritti (cui l’art. 39 Cost. fa esclusivo riferimento) ma anche dei voti raccolti nelle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie.

Tale accordo però è rimasto sulla carta e comunque non può certo ostacolare l’attuazione del dettato costituzionale, che comunque potrebbe prestarsi sul punto ad interpretazioni meno rigide. Il recupero dei contratti collettivi di categoria previsti dall’articolo 39 della Costituzione consentirebbe dunque in un colpo solo di risolvere tre problemi: la misura della rappresentatività sindacale; la tutela dei lavoratori non sindacalizzati; l’individuazione del salario minimo. Non poco per chi altrimenti non dovrebbe più lamentarsi della mancata attuazione della nostra Costituzione.

31 Agosto 2023

Condividi l'articolo