I tormenti di Ferrara
Giuliano Ferrara si arrende e rinnega Donald Trump: “È un pirla”
Dopo aver giurato fedeltà al turbocapitalismo Ferrara è capitolato: possibile non l’avesse neppure intuito che il tycoon fosse un mentecatto?
Editoriali - di Michele Prospero

Giuliano Ferrara comincia a pagare in denaro sonante il prezzo della sua antica apostasia. Non avendo il vizio di un Fagioli, si contiene di molto nel rischio da correre per la singola giocata. E però una minima vendetta, da parte del briciolo di verità consegnata nei testi sacri, può dirsi lo stesso consumata. Ha perso la scommessa con Christian Rocca perché era chiaro, per lo meno a coloro che non hanno relegato il grezzo abc del marxismo in soffitta, che la razionalità del mercato avrebbe trovato il modo per immunizzarsi rispetto all’improvvisa sospensione di ogni certezza nello svolgimento dei traffici imposta da Trump.
Quella che Marx chiamava la “follia del capitale”, il quale deve ciclicamente distruggere le condizioni di profitto per mantenere l’equilibrio su basi nuove, non si raddrizza mica con le sparate avventate di un capo con l’ossessione tricologica che liberalizza i getti nelle docce. Il mercato pretende nei suoi meccanismi di funzionamento la prevedibilità, la fiducia nel valore atteso e una buona dose di reciprocità poiché postula un intreccio pattizio delle aspettative per soddisfare la domanda e l’offerta dei beni. In Inghilterra i 45 giorni che non sconvolsero il mondo furono sanati da una operazione di tempestiva deposizione di lady Liz Truss ordinata dai notabili di Westminster. Sono precisamente questi i vantaggi del parlamentarismo, apprezzabili soprattutto nelle situazioni di emergenza, laddove il regime presidenziale incontra scogli persino nel frenare le corbellerie demolitrici fuggite dallo Studio Ovale.
Esistono regolarità dell’economia che valgono per qualunque attore come una silenziosa coazione richiesta da uno sviluppo obiettivo. Contro di esse urtano le velleità della decisione politica di trascendere le compatibilità delle transazioni attraverso il comando emesso a casaccio. Proprio Marx, già dal 1858, iniziò a sospettare che neppure la conquista del potere nella vecchia Europa sarebbe stata sufficiente al movimento operaio per dominare gli ingranaggi di una economia che si rivelava ormai globalizzata. Il suo timore, manifestato in una lettera ad Engels, era assai evocativo: “Siccome il mondo è rotondo, sembra che il compito della società borghese, la costituzione di un mercato mondiale, sia stato portato a termine con la colonizzazione della California e dell’Australia e con l’apertura della Cina e del Giappone. Ecco la questione difficile per noi: sul continente la rivoluzione è imminente e prenderà anche subito un carattere socialista. Non sarà necessariamente soffocata in questo piccolo angolo del mondo, dato che il movimento della società borghese è ancora ascendente su un’area molto maggiore?”.
A paragone dei territori amministrati dallo scudo della sovranità, lo spazio coperto dai codici impersonali dell’economia è divenuto incomparabilmente più ampio. Tale scarto, tra un potere incidente su un “piccolo angolo del mondo” e l’arena dei capitali che a dismisura avvolge il “mondo rotondo”, l’hanno compreso con lucidità i governanti cinesi. Mentre Trump passa il tempo guardando la televisione, disprezzando il sapere accademico e maneggiando algoritmi di pura fantasia per spezzare le reni ai pinguini dell’Antartico, l’élite collegiale di Pechino studia con una certa disciplina come coniugare al meglio la prospettiva del socialismo e l’inserimento efficace del Dragone nelle traiettorie del commercio internazionale.
L’ideologo del Partito, Wang Huning, vanta peraltro una solida cultura occidentale sui temi caldi connessi alla coppia Stato-società civile. Ha scritto la tesi di laurea sul concetto europeo di sovranità da Bodin a Maritain. Altre sue monografie, al di là del lavoro sul sistema politico americano, sono dedicate ad Agostino, a Machiavelli, al Marx critico di Hegel. Un suo libro degli anni 90 si occupa della Logica della politica: principi marxisti di scienza politica. Egli ha suggerito per la Cina, che a partire da Deng si è sempre più stabilmente insinuata nella rete degli scambi globali, il ricorso alla formula “Culture as State Power: Soft Power” (Gramsci avrebbe detto “egemonia”), un’espressione recepita da Joseph Nye. Un simile retroterra teorico spiega la calma della potenza in crescita, che fa di tutto per schivare il volto armato della trappola di Tucidide.
Lo sciamano populista, che per un momento ha depistato Ferrara, non potrà resistere alla temibile competizione dell’Impero celeste per la leadership, se il suo espediente principale consiste nel rivoltare le dinamiche oggettive scolpite nelle pieghe del calcolo economico. La misticheggiante “Trumponomics”, nella ardita promessa di Liberazione che sbandiera, poggia su fondamenta così fragili da far apparire in confronto un monumento di rigore di bilancio e di perizia nella dottrina valutaria le misure di Pancho Villa, che per autofinanziare la sua epopea si arrangiò come inventore creativo di cartamoneta (le mitiche “bilimbiques” e le “sábanas de Villa”).
Se a Chihuahua, su imperio del guerrigliero messicano incurante delle evidenze dell’economia reale, venivano stampate montagne di “lenzuola” al dì – nulla a che vedere con le “lenzuolate” di Bersani –, alla Casa Bianca per semplice decreto prescrivono la immediata reindustrializzazione delle misere aree interne senza badare ai costi per i consumatori e alla disponibilità di forze produttive. Quest’assurda pazzia, con i dazi distribuiti alla rinfusa, turba la circolazione mercantile e annuncia propositi di inimicizia, per ora solo commerciale. Alla prossima serata con la dea bendata, a Ferrara conviene comunque puntare sulla sopravvissuta linea di razionalità: affidarsi al “messianesimo di un pirla”, in politica come in economia, non porta bene.