Dazi e stangate
Dazi: Meloni si prepara a incontrare Trump, perché la missione della premier italiana negli USA è decisiva
Per il tanto pietito incontro con Donald Trump, Giorgia Meloni sarà il 16 aprile negli Stati uniti. Alla ricerca di una foto col presidente americano da sbandierare in faccia a Matteo Salvini
Politica - di David Romoli

In Europa nessun governo è forse più colomba di quello italiano (a parte la Spagna) e l’assioma non viene smentito: un po’ è la consapevolezza di quanto una guerra totale combattuta con i dazi sarebbe esiziale per l’Italia, un po’ e la vicinanza ideologica tra palazzo Chigi e la Casa Bianca ma un bel po’ è anche il fatto che quella è la parte in commedia della penisola. L’Europa mira a giocare su due registri: reazione grintosa, certo, ma anche porte sempre spalancate a ogni segnale di dialogo e di quel fronte è incaricata soprattutto l’Italia. Con una condizione che la premier e il ministro degli Esteri sono determinati a rispettare nonostante Salvini scalci: alla fine ci si muove sempre e comunque in sintonia con la Ue. Non sono ammissibili strappi e neppure divaricazioni troppo vistose. In questo momento sarebbe suicida per tutti.
Dunque ieri Tajani ha provato a convincere la Commissione europea e in particolare il commissario incaricato di gestire la trattativa, lo slovacco Sefcovic, titolare del Commercio, a rinviare l’inizio delle ostilità, o meglio delle contro-ostilità, fissato per il 15 aprile. Tentativo inutile e Tajani si è disciplinatamente uniformato, strappando però in compenso una delle condizioni per l’Italia più importanti: nella lista dei prodotti sui quali mettere i primi dazi, che nella sostanza è quella che era già stata stilata ai tempi della prima amministrazione Trump in risposta alla raffica (moderata) di dazi già decisi allora e poi “congelata” dopo l’eliminazione di quei dazi, è stato tolto il Bourbon. Sembra una bazzeccola ma non lo è. La rappresaglia minacciata da Washington era un macigno del 200% sul vino e a rimetterci sarebbe stata soprattutto l’Italia. La lista nera comunque era già pronta ieri in tarda mattinata, in attesa di essere comunicata nella serata di ieri ai capi di governo. Poi, il 9 aprile, verrà votata e il 15 entrerà in vigore.
La seconda bordata, quella in risposta ai dazi sull’alluminio, dovrebbe seguire ma con in mezzo un mese per negoziare: entrerà in vigore il 15 maggio mentre non c’è ancora una data per la replica al bombardamento a tappeto annunciato dal Giardino delle Rose della Casa Bianca, i dazi a tutto campo. L’auspicio, evidentemente, è che prendere tempo porti alla soluzione negoziata alla quale in realtà mirano tutti, evitando così il passaggio finale, la guerra commerciale totale. Proprio per questo Tajani non si mostra troppo abbattuto dal rifiuto della dilazione chiesta dall’Italia: “Il nostro suggerimento era dare più tempo per il dialogo. Anche se è stata rifiutata il messaggio politico è stato recepito perché tutti sono favorevoli al dialogo e lavoriamo per questo”.
Il “lavoro” riguarda ovviamente prima di tutti la Commissione, unica istituzione legittimata a trattare ufficialmente in materia commerciale. La presidente von der Leyen ha parlato di eliminare reciprocamente i dazi su tutti i prodotti industriali e Sefcovic ha specificato che sarebbero incluso anche i prodotti farmaceutici e chimici. Però, ha specificato, “non ora: questa sarebbe di nuovo una possibilità in futuro”. In questa specie di partita a poker, Bruxelles teme di mostrarsi debole e per questo parla sì di abbattimento dei dazi sulla produzione industriale, ma non subito. Allo stesso tempo, mentre si accinge a sganciare la prima ondata di dazi, Sefcovic sceglie il registro più lieve sul bazooka, l’arma che segnerebbe l’inizio di una guerra senza esclusione di colpi, insomma l’attacco contro Big Tech non solo con i dazi ma anche con tasse e normative punitive ad hoc: “In questa fase non mi addentrerei in definizioni specifiche. Preferiamo il negoziato”.
Ma la piena accettazione della delega totale alla Commissione per trattative e decisioni non significa che debbano essere esclusi “dialoghi individuali” di singoli leader che però, sottolinea Tajani, “devono essere messi a disposizione della Commissione affinché Sefcovic, che è competente, possa ottenere il miglior risultato possibile”. L’allusione è alla missione di Giorgia Meloni, circondata però da incertezza e segretezza. E’ sempre Tajani ad affermare che sì, probabilmente il viaggio a Washington ci sarà, ma quanto al quando non va oltre un vaghissimo “credo nelle prossime settimane”. La data indicata dalle solite fonti anonime sarebbe il 16 aprile ma è impossibile dire se quel viaggio ci sarà davvero prima dell’arrivo del vicepresidente JD Vance a Roma. Non è solo questione di felpatezza diplomatica dall’una e dall’altra parte. E’ soprattutto la consapevolezza che un colloquio senza possibilità di successo, dunque non preparato a dovere, sarebbe solo controproducente. Il passaggio è particolarmente delicato per Meloni: il fallimento del dialogo la ridimensionerebbe drasticamente, il suo successo le renderebbe la figura più centrale tra i leader europei.
In queste condizioni il vertice convocato per ieri pomeriggio da Giorgia Meloni con i vicepremier e i ministri direttamente interessati dalla crisi poteva fare ben poco. In particolare l’ordine del giorno prevedeva la messa a punto di una strada per garantire sostegni e ristori alle categorie più colpite. Non è un cammino agevole. Al contrario è uno slalom difficilissimo tra i paletti posti dal Patto di Stabilità e dalla procedura d’infrazione in vigore contro l’Italia da un lato e quelli fissati dal divieto di aiuti di Stato per le aziende dall’altro. La formula più praticabile sembra essere lo storno di 5 miliardi dal fondo pari a 6,3 miliardi a disposizione del Piano Industria 5.0 nel quadro del Pnrr. Ma una decisione verrà presa dopo l’incontro di oggi con le varie categorie e dopo la riunione di domani del Consiglio dei ministri, che varerà il Def. Ma senza considerare, per il momento, né gli eventuali aiuti né il riarmo. Un def destinato dunque a cambiare persino più radicalmente del solito.