L'inganno del reato di femminicidio
La mimosa all’occhiello del populismo penale
Il bene giuridico della vita non ammette diversa tutela a seconda del genere. Ed elevare a reato autonomo l’omicidio di una donna “in quanto donna” sulla base del movente trasforma il giudice in palombaro dell’animo umano. Il ddl governativo è stato uno spot per l’8 marzo e c’è chi dice: è già pronto un posto davanti alla Corte Costituzionale
Giustizia - di Andrea Pugiotto

1. Il reato di femminicidio è la mimosa che il Governo intende regalare a tutte le donne: «Un altro passo avanti nell’azione di sistema che sta portando avanti fin dal suo insediamento» per contrastare la violenza di genere e tutelarne le vittime, ha commentato la Presidente del Consiglio. Sfidando l’impopolarità, vorrei dire che è un inganno. E che semmai il nuovo art. 577-bis c.p. – parafrasando le parole di Meloni – rappresenta un altro passo avanti nell’azione di sistema che il Governo sta portando avanti, fin dal suo insediamento, per fare del pan-penalismo la risposta ad ogni allarme sociale.
2. Cominciamo col dire che, nonostante gli squilli di tromba, il Governo non ha introdotto alcun nuovo delitto: il Consiglio dei ministri ha solo deliberato un disegno di legge, prodromo al normale procedimento legislativo parlamentare. Per fortuna, viene da dire. Sarà così possibile emendare un testo normativo tecnicamente scadente, nonostante provenga dagli uffici legislativi di ben quattro ministeri (Giustizia, Interni, Famiglia e Pari opportunità, Riforme istituzionali). Introdurre un nuovo reato, infatti, richiede il rispetto di canoni costituzionali che il proposto art. 577-bis vìola, così prenotando «prima di nascere un posto nell’aula della Consulta» (Michele Passione, il Dubbio, 11 marzo).
A giustificare la tipizzazione di un reato autonomo, devono ricorrere ragioni attinenti alla specificità del bene giuridico tutelato. A impedire l’arbitrio del giudice in sede applicativa, il precetto deve essere tassativamente determinato nei suoi elementi costitutivi. A renderne possibile l’accertamento giudiziario, la condotta vietata deve avere una sua materialità. A motivare un inasprimento sanzionatorio dev’essere l’inadeguatezza della pena già presente nell’ordinamento. Non è solo un problema di costituzionalità: in questioni così delicate – qual è il ricorso alla leva penale – «i tecnicismi sono l’unica alternativa alle parole a vanvera» (Emmanuel Carrère, V13, Adelphi, 2023, 219). A vanvera, invece, è elevare a reato autonomo l’omicidio di una donna «in quanto donna», perché il bene giuridico della vita non ammette diversa tutela a seconda del genere.
Per questo, il Governo cerca di tipizzare l’evento in base ai suoi possibili moventi: ma «l’atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa», posto alla base del femminicidio, trasforma il giudice in un palombaro dell’animo umano, chiamandolo a un accertamento impossibile o arbitrario. Quanto alla circostanza che l’uccisione della donna miri a «reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità», non è quanto subisce qualunque vittima di omicidio? Sul piano sanzionatorio, il reato di femminicidio «è punito con l’ergastolo». Ma già ora è così, quando un omicidio è aggravato dall’essere commesso da uno stalker (art. 576, n. 5.1, c.p.) oppure se la vittima è il coniuge, anche legalmente separato, o il partner dell’unione civile o la persona convivente con il colpevole o a lui legata da relazione affettiva (art. 577, n. 1, c.p.).
3. L’annunciato reato di femminicidio è, dunque, una mimosa appassita che emana il maleodorante odore di populismo penale. Per quanto sovrastate dalle fanfare governative (e dal frettoloso plauso di molte realtà associative femminili e femministe), alcune voci controcorrente hanno parlato – a ragione – di ricorso alla leva penale «in chiave simbolica e quasi consumistica»; di un «messaggio suggestivo» veicolato da un reato introdotto per dare all’opinione pubblica una «soddisfazione mediatica», usando così il diritto penale «come strumento di consenso politico e come mezzo pedagogico». Un reato-spot, annunciato a ridosso della Festa internazionale della donna «come la réclame del panettone alla vigilia di Natale».
Sigilla il tutto la comminazione del “fine pena mai”, in attesa – viene da pensare – di affiancarvi la pena accessoria della castrazione chimica, come propone un disegno di legge d’iniziativa leghista (A.S. 839). Qui l’inganno da svelare è duplice. Giuridicamente, all’esito del giudizio sarà possibile mitigare la condanna all’ergastolo, attraverso il bilanciamento con eventuali attenuanti (come prevede espressamente il 3° comma del nuovo art. 577-bis). Empiricamente, sugli autori di femminicidio la misura della pena non esercita alcuna deterrenza (come insegnano i tanti casi di subitaneo suicidio, consumato o tentato, del reo). Ma che importa? Ciò che conta è il messaggio rivolto alle vittime e ai loro familiari, cui il disegno di legge promette un’inedita centralità in fase processuale e di esecuzione della pena. Anche questo è un tratto tipico del populismo penale, che del paradigma vittimario fa un asso pigliatutto che tutto giustifica.
4. Il preannunciato delitto di femminicidio dimostra che la fabbrica di nuovi reati lavora a pieno regime, senza cali di produzione. È così da anni e l’attuale XIX Legislatura non fa eccezione. Redigendone con acribia il catalogo, Ermes Antonucci (il Foglio, 21 ottobre 2024) ha parlato di un’autentica «sbornia giustizialista». Nel solo primo biennio di governo Meloni, infatti, sono stati già introdotti 48 reati di nuovo conio. Qualche esempio? Rave illegali. Lesioni nei confronti di medici e operatori sanitari. Danneggiamento di apparecchiature sanitarie. Riproduzione abusiva di opere coperte da diritto d’autore. Incendio boschivo. Traffico di migranti e conseguente morte. Abbattimento di esemplari di orso bruno marsicano. Omicidio e lesioni nautiche. Spaccio non occasionale di sostanze stupefacenti. Reato di “stesa”. Violazione degli ordini di protezione in caso di presunti abusi familiari. Imbrattamento di teche e custodie di opere d’arte. Violenza o minaccia nei confronti del personale scolastico. Nuovi delitti in materia di accessi abusivi a sistemi informatici. Indebita destinazione di denaro o cose mobili. Reato universale di gestazione per altri.
Il totale andrà ricalcolato se – ad esempio – sarà approvato in via definitiva il disegno di legge governativo in tema di sicurezza, già licenziato a Montecitorio (A.C. 1660): da solo, immette una trentina tra nuovi delitti, inedite circostanze aggravanti e giri di vite sanzionatori. Qualche esempio? Punisce come reato la «resistenza passiva» nelle carceri e nei centri per migranti. Sanziona a titolo di illecito penale i blocchi stradali e ferroviari. Modifica in peius la normativa penale in materia di: accattonaggio; danneggiamento in occasione di manifestazioni; violenza, minaccia, resistenza e lesioni personali a un pubblico ufficiale; tutela di beni mobili e immobili adibiti per l’esercizio di funzioni pubbliche. Apporta modifiche in materia di circostanze aggravanti comuni e di truffa. Introduce il delitto di occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui. Rende facoltativo il rinvio dell’esecuzione della pena per la rea incinta o madre di neonato. Prevede la revoca della cittadinanza in caso di condanna definitiva per gravi reati. La direzione di marcia è sempre la stessa: ricorrere, più che alla leva, alla clava penale.
5. Servirebbe regolare il flusso di questo rubinetto che la politica tiene sempre aperto. La decisione circa il se, il come e il quanto punire, infatti, è squisitamente politica: in ragione di ciò, la Costituzione riserva alla legge le relative scelte di criminalizzazione. In termini di politica del diritto, però, ciò si traduce nell’autosufficienza della maggioranza di governo in materia penale.
Così, come i pani e i pesci nell’Evangelo, i reati e le pene si moltiplicano in ragione della volubile volontà del Governo, espressa anche attraverso i suoi atti equiparati alla legge. Incrementandoli, la macchina giudiziaria ne esce ingolfata e si concorre a riempire gli istituti di pena oltre il necessario. È un circolo vizioso che va interrotto, introducendo a livello costituzionale valvole di sicurezza ad hoc. Quali? Chiedo ai pochi lettori interessati di pazientare: ne scriverò presto, su queste pagine.
[1. Continua]