Che resta del Pci?

Cosa è rimasto delle idee del Pci

Ci sono tanti modi per rispondere alla rottura di quella sintesi unica che era il Pci. Proviamo, nel nostro piccolo a frugare tra i carboni per restituire un po’ di vita alle ceneri di Gramsci

Editoriali - di Michele Prospero

17 Agosto 2023 alle 21:30

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Cosa è rimasto delle idee del Pci

L’ambivalenza dei giudizi sulla figura di Mario Tronti, che ha colpito Duccio Trombadori, nasce da una interpretazione della sua opera ferma al primo periodo, quello operaista.

Si cristallizzano così due visioni: l’una entusiastica, ripresa anche da Goffredo Bettini (sull’Unità presenta Tronti come “il più grande filosofo politico del dopoguerra”) e Mario Lavia (sul Riformista lo celebra quale autore della “più notevole costruzione scientifica del marxismo italiano dopo Antonio Gramsci”); l’altra fortemente critica, ribadita da Nadia Urbinati, una studiosa anche lei di provenienza comunista, che recupera invece un’antica pagina stroncatoria di Bobbio (“ho cercato di combattere in questi anni con tutte le mie forze contro la mentalità che può far nascere libri come quelli di Tronti”), e chiosa: “condivido tutto quel che scriveva Bobbio, anche virgole e incisi”.

Questa divaricazione così netta sull’eredità di un pensatore dall’“indiscutibile profilo morale” (Trombadori) rispecchia l’eco di un’antica dialettica di approcci tutta interna al Pci, diviso tra una tendenza più vicina alla ricezione delle tematiche democratico-kelseniane, e poi rawlsiane, ed una più attratta dai miti della teologia politica e del decisionismo schmittiano, avversa alle neutralizzazioni liberali (“A Tronti la democrazia non interessa: perciò il suo problema è quello di proporre una nuova strategia per la conquista del potere”, rilevava lo stesso Bobbio).

Proprio prendendo come spunto uno di quei rituali dibattiti tra intellettuali che si svolgevano nei primi anni 80 su Rinascita, Giuliano Ferrara ruppe con il Pci firmando un articolo molto polemico sull’Espresso. In esso denunciava una fuga del nuovo pensiero comunista dalle garanzie della liberaldemocrazia, che erano state invece metabolizzate dal partito nella sua stagione di continua crescita. Questa disputa sui fondamenti teorici si è spenta negli anni 80, poi il tramonto del Pci ha rimescolato tutte le carte.

C’è un momento assai interessante della produzione di Tronti – lo ha ricordato su queste colonne Matteo Orfini a De Giovannangeli – che si può definire togliattiano. Quando nel 2014, come presidente del Crs, fu ricevuto al Colle, Tronti disse che era stato trattato “come un compagno” da Napolitano. Alla destra comunista egli riconosceva peraltro alcune doti considerevoli: il realismo politico, la capacità di lettura tattica della fase e un orgoglio di partito maggiormente sviluppato che in altre correnti più movimentiste. Nel 2013 al Teatro de’ Servi, esaltando l’apporto del Pci alla Costituente come un autentico “miracolo politico”, Tronti pronunciò un discorso molto significativo anche rispetto alle sue asserzioni degli anni 60: “Togliatti è la politica, chi vuole fare politica a quella scuola deve andare e chi vuole pensare la politica deve fare altrettanto”.

Quando Trombadori parla del Pci come “uno specchio rotto”, da cui emerge un’infinità di pezzi spesso non più comunicanti se non nelle lontane memorie, si imbatte in quella che Bettini chiamerebbe la crisi della “forma”. Nel Pci questa “forma” era la sintesi togliattiana entro la cui orbita gravitavano le suggestioni variegate di una visibile cultura parziale, quella “complessità e diversità di idee” cui accenna Trombadori, personalità agli antipodi come Amendola e Ingrao. Il paradigma togliattiano poggiava sul “partito nuovo” come organismo distinto da quello leninista e concepito ab origine in vista di una ricomposizione socialista; sulla Costituzione-progetto come già depositaria di un modello inedito di società che non richiedeva salti, accelerazioni, fratture; sulla necessità di un’analisi di classe del tessuto sociale, attenta però alle alleanze plurali con gli strati popolari e i ceti medi.

Gli accenti peculiari della sinistra e della destra interne (più movimento o più istituzione, più lotta o più governo, più innovazione o più manutenzione nel prototipo di forma-partito) precisavano porzioni differenti da dare occasionalmente alla miscela, ma non contestavano mai l’alchimia togliattiana. È con Occhetto che invece l’amalgama esplode, quando si afferma un impianto più sensibile al lascito rivoluzionario dell’Ottantanove francese. Egli stesso ha dichiarato di appartenere a un filone molto eccentrico del patrimonio della sinistra italiana, distante dal canone realista togliattiano. E questa nota biografica può fare luce su quelle che Trombadori chiama le “questioni lasciate aperte dalla fine precipitosa e arrabattata del vecchio Pci”. Dal partito alla “Cosa-carovana”, dall’identità all’“oltrismo” obliterante la tradizione comunista e quella socialdemocratica, dal conservatorismo costituzionale al “nuovismo” subalterno a Segni e alle procure: il modo con cui il Pci “è uscito da se stesso” ha concorso di sicuro alla malattia mortale della democrazia repubblicana.

Non era impossibile una gestione diversa della chiusura del secolo breve, in direzione dell’approdo ad un partito che nell’idealità socialista tenesse insieme, come prima, sensibilità le più varie. Non era solo Napolitano ad indicare un percorso “dal Pci al socialismo europeo”. Fu il congresso di Firenze del 1986 a coniare per tutti la formula del Pci come “parte integrante della sinistra europea”. E i contributi più organici alla conoscenza delle effettive dinamiche delle socialdemocrazie vennero dai densi volumi pubblicati dal Crs sotto la presidenza di Ingrao, dagli studi degli anni 80 di Leonardo Paggi sul Pci e i riformismi europei.

L’“oltrismo” degli anni 90 fece invece tabula rasa di tutto questo materiale preparatorio. Le immagini di Blob del 1993, in onda proprio in queste settimane per il trentennale, mostrano l’impressionante violenza del linguaggio pubblico del tempo (politica e televisione), risse di piazza tra onorevoli, scene di ovazione per un magistrato molisano mentre entra in una sala gremita di arrabbiati. Si percepisce alla distanza qualcosa di irregolare, come una caduta di regime, nell’esito del ricambio della classe dirigente quasi un colpo di mano, comunque un’alterazione dello Stato di diritto e dell’equilibrio tra i poteri.

Quando una “forma” come quella togliattiana si infrange, le schegge corrono via imprendibili e del Pci rimangono solo tanti frantumi isolati, con milioni di biografie non dialoganti. In questa dispersione, Trombadori trova parole di incoraggiamento per l’Unità di Sansonetti. E sono utili le sue frasi perché, appena qualche giorno prima, su La7 un conduttore che ruota sulla seggiola aveva proferito l’espressione ostile: “povera Unità”. La trasmissione era dedicata alla censura da regimetto che ha costretto un Cognome a riparare in una emittente del Biscione in odore di sovversione.

Solo lì, tra mille stenti, avrebbe avuto Carta Bianca per seguitare a discorrere attorno ai minimi sistemi con lo scamiciato uomo dei monti e con quel tale sociologo che sproloquiava: “per essere liberi, bisogna uccidere Gramsci. Il mio libro è un tentativo di strappare Gramsci dalle nostre menti”. Ci sono tanti modi per rispondere alla rottura di quella sintesi unica che era il Pci. La “povera Unità” almeno prova nel suo piccolo a frugare tra i carboni per restituire un po’ di vita alle ceneri di Gramsci.

17 Agosto 2023

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