La rinuncia al conflitto

Chi era Karl Marx e quale era la sua idea di salario minimo

I novelli sostenitori del salario minimo vanno ripetendo che sotto i 9 euro l’ora un lavoratore è “sfruttato”, come se lo “sfruttamento” fosse un vizio dal quale potersi emendare varcando il numeretto salariale magico stabilito per legge. È invece l’essenza del regime economico capitalista

Politica - di Michele Prospero

2 Agosto 2023 alle 13:30

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Chi era Karl Marx e quale era la sua idea di salario minimo

Sul salario minimo la maggioranza ha spedito la palla in tribuna rinviando ogni seria discussione nel merito. Le opposizioni devono approfittare del tempo a disposizione per modificare l’impianto di una riforma che si impone come necessaria, e che però ha bisogno ancora di alcuni accorgimenti operativi. Spunti interessanti in tal senso provengono da una recente intervista a Carlo Cottarelli apparsa sul Corriere della Sera.

È scappato dal Pd perché ne temeva una deriva “radicale” o estremista dopo le primarie che a sorpresa avevano investito una leadership dal sapore nuovo. E invece stavolta tocca proprio all’economista liberaldemocratico scavalcare a sinistra il Nazareno, almeno dal punto di vista dell’analisi. Un’antica bandiera del Pci dei primi anni Sessanta, quella del salario minimo, è ora recuperata per vie traverse dal Pd, anche perché preoccupato dalla concorrenza grillina sul terreno dell’agenda sociale. E però l’iniziativa viene condotta con ambiguità teoriche e pratiche evidenti persino agli occhi di un moderato.

Anzitutto colpisce la litania comunicativa dei novelli sostenitori della misura. Quando a ogni piè sospinto precisano che al di sotto della soglia legale dei 9 euro orari – e, si badi bene, solo allora! – un lavoratore è “sfruttato”, si ha la percezione che Marx non abiti più in alcun luogo della politica italiana. Per molti “radicali” odierni l’azione dello “sfruttare” si riduce semplicemente a una categoria morale, un vizio dal quale è possibile emendarsi varcando il numeretto salariale magico stabilito per legge. Lo “sfruttamento” indica invece l’essenza del regime economico capitalista che interviene nella definizione del legame tra salario, prezzo e profitto. Non esiste modo di produzione capitalistico senza l’appropriazione privata da parte del capitale di una porzione di tempo di lavoro non pagata e destinata a riempire la quota del plusvalore, cioè senza quel fenomeno altrimenti detto di “sfruttamento”.

Non è dunque questione di 9 euro, né di qualsiasi altra cifra, si tratta piuttosto del fondamento del rapporto di produzione che si valorizza proprio con una frazione di lavoro non retribuita. Con queste parole Marx chiariva i meccanismi del mercato moderno congegnati dal capitalismo:Per usare una espressione matematica: la grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa”. L’origine della conflittualità risiede nell’urto tra due forze contrastanti. Da un lato c’è la propensione dell’impresa alla concessione di un “salario minimo” (in senso marxiano), che garantisca quel tanto che serve per assicurare la riproduzione della forza lavoro, restando fermo l’obiettivo del contenimento del costo della manodopera come “intimo segreto della psiche del capitale”; dall’altro ci sono le esigenze del lavoratore di racimolare il denaro per la cura del bisogno e di mantenere o ampliare le opportunità di consumo.

Sul piano logico, il capitale insegue la riduzione massima dei costi, ma questa è un’attitudine irrealizzabile perché “la gratuità dei lavoratori è un limite in senso matematico, sempre irraggiungibile, benché sempre più approssimabile. È tendenza costante del capitale di abbassare i lavoratori fino a questo punto nichilistico” (Marx). Secondo il filosofo di Treviri, al suddetto “punto nichilistico” non si può effettivamente pervenire perché la nuda corporeità che lavora (composta da cervello, nervi, muscoli) necessita di salute, conservazione delle energie, un apporto vitale sia pur esiguo. E i “bisogni naturali” del corpo rientrano in uno “stadio culturale del paese”, che prevede la formazione, la spesa per l’educazione, insomma un reddito sufficiente visto comunque in relazione a “un elemento storico e morale”.

Nell’indagine di Marx, “il limite minimo” sognato dal capitale non soltanto urta con la reazione rivendicativa della classe operaia, ma si scontra anche con lo “stato culturale generale della civiltà” e con criteri etici vincolanti, aspetti che vanno chiaramente al di là delle limitazioni fisiche di una forza “vivente” la quale non può certo essere lasciata deperire. Il fatto che milioni di persone in Italia siano oggi condannate al lavoro povero evidenzia un degrado sistemico, oltre a svelare la debolezza del movimento operaio nel tutelare figure situate ai margini della contrattazione nazionale e quindi con un assai scarso potere negoziale.

Una situazione, questa, che esigerebbe “conflitto”. E invece, data la difficoltà di organizzare socialmente il lavoro indigente disseminato nelle microimprese che conformano il tessuto produttivo italiano, i soggetti politici e sindacali si accomodano volentieri su una scorciatoia: il capitale non va toccato, l’impresa può continuare a spremere la forza lavoro come ha sempre fatto. Così però la controparte, che deve assicurare un migliore tenore di vita e più alti livelli di reddito, diventa lo Stato. Con la sua fiscalità generale, la repubblica deve infatti accollarsi gli incrementi salariali senza incidere sul margine di profitto aziendale, che rimane invariato.

L’attuale progetto “radicale” di paga minima presenta un difetto che è ben colto da Cottarelli: “C’è un’anomalia in questa proposta che in nessuna legge degli altri paesi c’è. Ed è l’aver fissato, sia pur in via temporanea e con valori decrescenti, un sussidio alle imprese nel caso sia necessario adeguare il salario per portarlo ai 9 euro l’ora. […] Per adeguare il salario minimo si deve cambiare la distribuzione tra profitti e salari, non metterci dentro i soldi pubblici”.Insomma, per strappare conquiste non si adotta più lo schema classico che vede il lavoro opporsi al capitale, ma capitale e lavoro marciano uniti in una lotta condivisa contro le finanze pubbliche.

La logica dei sussidi, così come il taglio del cuneo fiscale e più in generale la politica dei bonus, accontenta i sindacati ma anche le associazioni datoriali perché le elargizioni monetarie non costano un euro alle imprese, mentre a finire prosciugate sono le risorse statali. Poiché – si sostiene – lo “sfruttamento” cessa quando lo stipendio raggiunge i 9 euro l’ora, dell’aggiornamento delle retribuzioni inferiori alla fatidica asticella devono farsi carico gli altri lavoratori che, alla luce del senso comune corrente, non vivono più nella condizione di “sfruttati”.

In questa visione, in sostanza corporativa e aconflittuale, i lavoratori dipendenti rinunciano però a fondamentali “beni” pubblici e comuni. Lo fanno attraverso la destinazione del loro prelievo fiscale all’adeguamento dei contratti privati, anziché al finanziamento di scuola, sanità, ricerca e innovazione. Intesa in questo modo, la battaglia per il salario minimo, aumentando di pochi spiccioli la busta paga dei lavoratori ma lasciando identici i costi per le imprese, mantiene inalterate le cause della lunga stagnazione italiana.

Eppure, andrebbe mutata in radice proprio la struttura produttiva di un nanocapitalismo che tende a tirare a campare confidando sui bassi salari, sulla precarietà, sull’incertezza, sulla de-sindacalizzazione. Che in questo ramo il liberale Cottarelli si riveli concettualmente più a sinistra delle forze politiche e sociali “radicali”, costituisce certamente un’anomalia del dibattito pubblico che sarebbe utile correggere.

2 Agosto 2023

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