100 anni dalla nascita

Gerardo Chiaromonte, un comunista libero tra Croce e Togliatti

Era comunista, su questo non c’è dubbio. Convinto e militante. Però era un uomo libero. Vi racconto la sua storia all’Unità. I titoli lunghissimi il garantismo, le prese in giro di Ingrao, gli scherzi a Occhetto

Editoriali - di Piero Sansonetti

29 Novembre 2024 alle 18:00

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Photo credits: Carino Carlo/Imagoeonomica
Photo credits: Carino Carlo/Imagoeonomica

Entrò nella mia stanza con un foglio di carta in mano. Aveva quegli occhiali enormi, spessi, era un po’ teso. Era il primo giorno all’Unità, per lui. 1986, mi pare che fosse il 30 aprile. Non ci conoscevamo. Io diffidavo di lui. Era migliorista”, “amendoliano”, mi sembrava arcigno. Lo avevo visto in azione due anni prima quando era capogruppo del Pci al Senato e guidava l’ostruzionismo contro Craxi. Lui che di Craxi era, credo, amico. Mi aveva fatto impressione, perché era forte, un leone bianco, però mi sembrava un po’ feroce. Mi intimidiva. Beh, vi giuro che mi sbagliavo.

Mi tese quel foglietto e mi disse: “Ecco, ho fatto il titolo per l’apertura del giornale. Guarda se va bene”. Lo aveva scarabocchiato su quel biglietto. Lo lessi. C’era scritta una frase assurda che non finiva più. La riassumo: “Roma democratica e antifascista ha manifestato il suo sdegno per le manovre reazionarie del governo che minacciano la democrazia e le condizioni materiali di esistenza del popolo, e spingono l’Italia verso un ritorno indietro che cancellerebbe anni e anni di conquiste operaie”.  Ero imbarazzato. Non sapevo come dirglielo. Risposi timido. Lo chiami per cognome, come si usava allora, almeno a l’Unità ( non si diceva “Direttore” e non si usava il nome di battesimo). “Chiaromonte – balbettai – questo titolo è troppo lungo. Può essere un sommario. Il titolo deve essere un po’ più sintetico”. Non se la prese. Mi chiese: “Tu come lo faresti?”. Ci pensai pochissimi secondi e risposi: “La rabbia di Roma antifascista”. Cinque parole, su due righe. Lui sorrise, e mi disse: “Sei bravo a fare i titoli. Ottimo. Mettiamo il titolo che hai detto tu”.

Da quel giorno, verso le sette di sera, entrava tutti i giorni nel mio ufficio, sempre con un foglio di carta in mano, e mi diceva: “questo è il sommario, il titolo fallo tu…”. E da quel giorno, poche ore dopo il suo ingresso a l’Unità, tutte le mie diffidenze si sciolsero, credo anche le sue, e diventammo amici. Un’amicizia breve, pochi anni prima della sua morte. Ma la sento ancora. Non sono uno storico e quindi questo articolo che scrivo è molto parziale. Vado solo sulla memoria. Vi racconto cosa ho capito di lui, poi spero che qualche studioso saprà spiegare meglio questo personaggio. Che merita di essere studiato. Io vado per aneddoti.

Chi era Gerardo Chiaromonte

Gerardo Chiaromonte è stato un personaggio straordinario. Un grande intellettuale, un dirigente politico di altissime qualità, un uomo serio, allegro e dolcissimo. Forte come Lancillotto e fragile come Corradino di Svevia. Era uno dei ragazzi allevati da Togliatti. Come Ingrao, Napolitano, Reichlin, Macaluso, Natta, Tortorella e tanti altri, tutti di livello eccezionale. Lui però aveva una cosa in più, quasi un vezzo. Almeno, a me disse così. Disse: “Mi ha forgiato Togliatti ma anche Croce”. Già. Chiaromonte era un comunista pieno. Del comunista aveva non solo l’orizzonte e i valori ben radicati nel dna. Aveva il mito della militanza, il senso di appartenenza, una certa idea di collettivismo. Però era un uomo libero come se ne trovavano pochi, allora, nei piani alti dei partiti. (Adesso se ne trovano ancora meno). E negli anni dello stalinismo, e poi del leninismo e del post-leninismo del Pci, lui ha sempre tenuto fermo un nucleo di pensiero e di comportamento liberale. Per esempio, era un garantista vero, come allora nel Pci non ce n’erano. A parte Terracini e pochissimi altri.

Gerardo è nato esattamente 100 anni fa, il 29 novembre del 1924. Aveva 21 anni quando Ercoli, cioè Palmiro Togliatti, sbarcò a Salerno, disse che il Pci non aveva pregiudiziali verso il re, fece la svolta, entrò nel governo Badoglio, da grande statista, e in pratica rifondò il Pci, che non era più quello di Gramsci, e mise molti mattoni per rifondare anche l’Italia e costruire il miracolo italiano. Gerardo era un giovane ingegnere, e fu notato da Giorgio Amendola, che della sinistra napoletana era il re e il padrone. Amendola aveva fatto la Resistenza a Roma, e prima prigione e confino, ed era il figlio di Giovanni, ex ministro delle Colonie, liberale, antifascista, capo dell’Aventino, aggredito e bastonato e ucciso dalle squadracce di Mussolini. Fu lui, Giorgio Amendola, a scoprire Gerardo e a metterlo a capo dei comunisti napoletani.

Nel 1960 Chiaromonte era già nel comitato centrale del partito, e nel 1962 era in direzione. Faceva parte, naturalmente, della corrente di Amendola, cioè la destra del partito. Quella più vicina a Nenni e lontana da Mao e dai gruppi che stavano nascendo in vista del 1968. Alla corrente di Amendola, allora, si contrapponeva la corrente di Ingrao, più radicale, più di sinistra, ma anche anti-sovietica e vicina alla sinistra cattolica nata dal Concilio Vaticano. I due gruppi un po’ si odiavano, un po’ – poi – finivano sempre per amarsi. Quando nel 1976 Berlinguer offrì ad Amendola la presidenza della Camera, Amendola rispose: “No, datela a Pietro. È più adatto”. Pietro era Ingrao. Gerardo con me parlava sempre bene di Ingrao. Credo anche perché sapeva che io ero ingraiano. Forse non solo per questo. Sbottò solo una volta, con quel senso pazzesco dell’umorismo che era il pilastro della sua vita. Era appena uscito un libro di poesie di Ingrao, secondo me bello. Gerardo era seduto davanti alla mia scrivania, prese il libro che stava sul tavolo, lo aprì, lo sfogliò, restò qualche minuto assorto e poi mi disse: “Io dell’ingraismo posso capire tutto, ma non questo modo di andare a capo…”. E poi scoppiò in una di quelle sue risate fragorose e irresistibili. Che volevano dire: “Sono cattivo, ma anche buono”.

Chiaromonte è stato direttore de l’Unità per tre anni. Tre anni che abbiamo passato vivendo insieme il nostro lavoro, 12 ore al giorno. Pranzando insieme, talvolta anche andando allo stadio. Ci andammo il primo maggio del 1988. Napoli-Milan. Il Napoli era in testa alla classifica, e lui faceva un tifo sfegatato per il Napoli. Il Milan era secondo a un punto, e io facevo un tifo sfegatato per il Milan. Lo andai a prendere a casa, a Trastevere, con la mia Uno blu scassatissima, e ci fiondammo a Napoli. Aveva i biglietti per la tribuna d’onore e mi aveva fatto il regalo di invitarmi. Mi ricordo che segnò Virdis, numero 11 del Milan, nel primo tempo, ma allo scadere pareggiò Maradona su punizione. Lo stadio era una bolgia. Il Napoli, se pareggiava, era a un passo dallo scudetto. Ma nel secondo tempo, prima Gullit e poi, al termine di un’azione devastante, sempre di Gullit, Van Basten appoggiò la palla in rete per il 3 a 1 che consegnava al Milan, virtualmente, lo scudetto. Quando finì la partita Gerardo si alzò in piedi e iniziò ad applaudire, trascinando prima la tribuna d’onore e poi tutto lo stadio in un grande applauso che fu uno dei gesti più sportivi della storia del calcio. Cavolo se aveva carisma.

Begli anni, quegli anni a l’Unità. Io ero garantista. Ma solo per gli imputati di sinistra. Fu lui a spiegarmi che il garantismo o è completo o non può esistere. Era amico di Falcone. Fu un grande presidente dell’antimafia mentre in Italia iniziava il temporale orrendo di “Mani pulite”. Un giorno, credo del 1987, era domenica e il giornale era in mano mia, perché Chiaromonte e Mussi (condirettore) e Foa (vicedirettore) erano a riposo. In quegli anni l’Unità il lunedì usciva con un supplemento satirico, diretto e immaginato da Sergio Staino, che si chiamava Tango. Suona il telefono. È Occhetto (vicesegretario del partito). Agitatissimo. Mi chiede se è vero che sta per uscire un numero di Tango che prende in giro Natta, dipingendolo nudo mentre balla da solo circondato dall’ironia dei suoi avversari politici. Gli dico la verità. Non mi risulta, non so, Tango è autonomo. Lui mi ordina di informarmi. Scendo in tipografia (allora l’Unità si stampava nello stesso palazzo della redazione), trovo il giovanissimo Giovanni De Mauro che sta impaginando Tango e mi conferma che il “Nat-tango” c’è ed è come temeva Occhetto. Chiamo Gerardo. Non si agita. Mi dice: “Io stacco il telefono, staccalo pure tu e facciamo uscire Tango. Poi domani si vede…”. Facemmo così. Tango uscì. Nel Pci fu un putiferio. Lui restò tranquillo. Anche se proprio in quei giorni mi disse: “Per capire gli uomini, anche quelli che lavorano con te, devi guardarli dalla scrivania di direttore de l’Unità”. Era amareggiato.

Così come era amareggiato tantissimo quando nell’estate del 1988 lo liquidarono. Gli sottrassero la direzione del giornale, alla quale era affezionatissimo. Credo che per lui fu un colpo mortale sul piano psicologico. Io tornai dalle vacanze proprio quel giorno. Andai nella sua stanza, lui mi disse che non si era mai sentito così solo e tradito. Era sul punto di piangere. Era tenerissimo ma anche fiero, come è sempre stato. Chiaromonte ha avuto una storia di dirigente molto importante del Pci. Amendoliano ma piuttosto vicino a Berlinguer in una fase lunga. Credo che sia stato per qualche anno il numero due del partito. Era direttore di Rinascita quando su Rinascita (autunno 1973) uscirono gli articoli di Berlinguer che teorizzavano il compromesso storico. Poi Berlinguer, qualche anno dopo, nel 1980, fece la svolta a sinistra, e Chiaromonte un pochino, credo, si defilò. Il suo posto mi pare che lo prese Tortorella.

Però Gerardo era al comando quando nel 1984 ci fu lo scontro asperrimo coi socialisti sull’abolizione (il congelamento parziale, per la verità) della scala mobile. Guidò l’ostruzionismo del Pci in Senato. Che durò molte settimane e si concluse solo con la morte di Berlinguer, in giugno. E mi ricordo che una sera, insieme a Napoleone Colajanni, scoprì dove c’era una scatola di fili elettrici dai quali dipendeva l’illuminazione dell’aula. Chiaromonte trovò le forbici e Napoleone le usò. Zacchete. L’aula restò senza luce per ore. Nessuno capiva il perché di quel guasto. La seduta fu interrotta e l’ostruzionismo potè guadagnare spazio.

Se non fosse finita la pagina potrei proseguire a raccontare episodi su episodi. Ora vi dico solo che Gerardo mi manca, che ad alcuni di noi lui ha dato tantissimo, anche se era amendoliano e noi no. E poi posso mandare un grande abbraccio a una persona che credo abbia contato molto nella sua vita, e che sia stata uno degli elementi che gli ha permesso di avere quella incredibile apertura mentale che aveva. Sua figlia Franca.

29 Novembre 2024

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