Le espulsioni e la normativa Ue
I Cpr in Albania non si possono fare, ecco perché
Visto che non riesce a farli funzionare, il governo italiano ha annunciato di voler convertire i centri attivati nell’ambito del protocollo con Tirana in centri per il rimpatrio. Ma deve fare i conti con quanto previsto dalla normativa Ue in materia di espulsioni. E che difficilmente l’Europa riuscirà ad ammorbidire...
Politica - di Gianfranco Schiavone

Il Governo italiano ha annunciato di voler utilizzare i centri attivati in Albania nell’ambito del Protocollo Italia-Albania ratificato con L. 14/24 come CPR (centri per il rimpatrio), abbandonando in tal modo l’obiettivo primario per cui il Protocollo stesso era nato, ovvero il primo esperimento in Europa di trasferimento coattivo di richiedenti asilo in un paese terzo al fine di attuarvi la procedura di esame delle domande di protezione.
Come ho in più occasioni scritto su queste pagine, quest’obiettivo ha incontrato (e incontrerà anche in futuro, se per folle accanimento non sarà abbandonato) problematiche giuridiche insormontabili. Ma per le espulsioni invece? In questa materia gli Stati possono adottare legislazioni interne anche molto eterogenee (come in effetti accade tra i diversi Paesi UE), purché le norme interne siano conformi al sovraordinato diritto dell’Unione, in particolare alla Direttiva 115/2008/CE sui rimpatri. La Commissione Europea ha annunciato che a brevissimo (marzo 25) presenterà una proposta di rifusione di tale vigente direttiva che in effetti è piuttosto datata.
Non sappiamo se il testo conterrà anche la possibilità di istituire in paesi terzi all’Unione Europea delle strutture di detenzione per i rimpatri (gentilmente chiamate “return hub” ovvero centri per il ritorno, per occultare la loro reale natura di luoghi di detenzione). Ciò che è chiaro è che tale eventuale proposta incontra non pochi problemi sia sotto il profilo della legittimità che della fattibilità, tanto che anche in un documento del Consiglio dell’Unione Europa del 7.11.24 (15071/24) elaborato sotto la presidenza ungherese, che spingeva per la realizzazione di tale intento, si evidenziava come “nell’esaminare la fattibilità, dobbiamo valutare come il concetto di “hub di rimpatrio” possa essere inserito nel quadro giuridico dell’UE”.
Anche in un altro recentissimo documento del Consiglio elaborato sotto la presidenza polacca del 7.02.25 (5681/25) emerge la consapevolezza della difficoltà di conseguire l’obiettivo comune sostenendo la necessità di trovare “una base giuridica inquadrata in modo flessibile che consenta anche applicazioni più personalizzate in accordo con i potenziali Paesi ospitanti degli hub”. Nelle more di un futuro iter legislativo lungo ed incerto che coinvolgerà i due organi co-legislativi dell’Unione, il Parlamento e il Consiglio, rimarrà intanto in vigore l’attuale Direttiva; diversamente da quanto molti erroneamente pensano essa prevede che la detenzione per eseguire il rimpatrio può essere applicata solo come ultima istanza e che le misure coercitive devono essere “proporzionate” e non eccedere “un uso ragionevole della forza” (art. 8 par.4).
Inoltre “gli Stati membri possono trattenere il cittadino di un paese terzo sottoposto a procedure di rimpatrio soltanto per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento (il quale) ha durata quanto più breve possibile ed è mantenuto solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio” (art.15 par.1). Altresì il trattenimento deve essere riesaminato nei suoi presupposti ad intervalli regolari da parte di un’autorità giudiziaria, e ”quando risulta che non esiste più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi (o possono essere disposte misure meno afflittive) il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata” (art. 15 par.4). È dunque possibile che il trattenimento finalizzato all’esecuzione dell’allontanamento (se legittimamente disposto) sia attuato deportando intanto lo straniero in una struttura che si trova al di fuori del territorio dello Stato membro dell’Unione usando ciò quale misura deterrente?
Molti, anche autorevoli, studiosi ritengono che ciò potrebbe essere legittimo solo se tutte, nessuna esclusa, le garanzie previste dal diritto europeo, vengano garantite in concreto. In un recentissimo documento denominato Planned Return Hubs in Thirds Countries (position paper 1/25) l’Agenzia Europea per i diritti fondamentali (FRA) sottolinea correttamente che gli stati UE mantengono i loro “obblighi in materia di diritti umani ogni volta che avranno un controllo effettivo sulle persone, anche se operano a livello extraterritoriale” e dopo aver condotto una disamina delle disposizioni normative applicabili e della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e aver ricordato che bisogna vigilare in modo rigoroso sul rispetto del divieto di non-respingimento, anche indiretto, conclude che “Il diritto dell’UE non vieta la creazione di centri per il rimpatrio, ma impone notevoli limitazioni” (par.51). Considerata la rilevanza dei diritti in gioco, secondo l’Agenzia tuttavia la creazione degli hub per il rimpatrio “dovrebbe includere disposizioni su meccanismi di monitoraggio dei diritti umani efficaci e indipendenti” (pag.5).
La modesta analisi del sottoscritto si discosta parzialmente dalle conclusioni sopraindicate: ritengo, infatti, che nella valutazione delle garanzie di tutela dei diritti del cittadino straniero sottoposto ad un trattenimento per eseguire l’espulsione vada adottato un approccio sostanzialistico che guardi all’effettività di quelle stesse garanzie considerate nel loro complesso. Ritengo non sia possibile non considerare come un’eventuale deportazione della persona dentro una struttura di detenzione in un paese terzo (teoricamente dunque in qualunque parte del mondo) innanzitutto indebolirebbe in modo sostanziale il diritto ad una difesa effettiva; mai infatti il trattenuto incontrerebbe il suo avvocato (che il centro si trovi in Albania o altrove) e in realtà neppure il suo giudice; inoltre, come già avvenuto nei centri in Albania nel corso delle operazioni che finora hanno riguardato i richiedenti asilo, la stessa fattibilità dell’instaurarsi della relazione tra trattenuto e difensore (e quindi l’esercizio del diritto inalienabile alla difesa) verrebbe resa possibile solo nei limiti della benevola disponibilità di chi gestisce i centri. Ugualmente diverrebbe impossibile rispettare la vigente previsione in base alla quale gli “enti non governativi hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea” (Direttiva 115/2008/CE art. 15 par.4).
Per ragioni organizzative ed economiche, nessuna realtà non governativa riuscirebbe a farlo, specie a lungo. È incongruente affermare in modo solenne, come fa la citata Agenzia, che sono necessari meccanismi di monitoraggio efficaci e indipendenti se attuarli diviene impossibile nella sostanza. La stessa disposizione che prevede la necessità che il trattenimento sia rivisto ad intervalli regolari e sia sostituito subito da misure meno afflittive se ne ricorrono le condizioni (collaborazione dello straniero nel rimpatrio, intervenute vulnerabilità et.) sarebbe nei fatti vanificata; lo straniero dovrebbe infatti in questi casi rientrare nel paese UE, ma in concreto ciò non avverrebbe. I tragici fatti degli ultimi vent’anni ci ricordano che, nonostante le garanzie scritte sulla carta, il sistema dei centri di detenzione amministrativa, anche per la mancanza di una norma primaria che disciplina i modi del trattenimento (sul punto vedasi le eccezioni di legittimità costituzionale sollevate dal Giudice di Pace di Roma con ordinanze nn. 209-210-211-212/2024 pubblicate in G.U. n. 47 del 20.11.2024), è divenuto un gorgo allarmante di soprusi, violenze e radicali inadempienze.
Ricordavo proprio su queste pagine (edizione del 19.12.24) come il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o punizioni inumani o degradanti (CPT) nel suo rapporto reso pubblico il 13 dicembre 2024 al Governo italiano abbia messo in evidenzia lo stato disastroso dei centri per i rimpatri in Italia, sia sotto il profilo materiale che sotto quello del rispetto dei diritti minimi dei trattenuti, giungendo persino ad evidenziare la totale aberrazione per cui “le condizioni di detenzione osservate in tutti i CPR visitati al momento della visita del 2024 potrebbero essere considerate simili a quelle esistenti all’interno delle unità di detenzione sotto il regime speciale dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario italiano”. Con un brivido che corre lungo la schiena è possibile dunque immaginare ciò che potrebbe accadere dentro strutture volutamente lontane, isolate e inaccessibili ubicate al di fuori del territorio nazionale.
Ritengo dunque che un’interpretazione doverosamente restrittiva del vigente diritto dell’Unione Europea porti a concludere che le garanzie che devono essere assicurare ai trattenuti in attesa di allontanamento possano essere concretamente e pienamente rispettate solo nel territorio in cui lo Stato europeo esercita la propria piena giurisdizione e che da parte degli Stati non sia possibile eludere o comunque indebolire tali garanzie trasferendo coattivamente i trattenuti dal loro territorio verso un’area extraterritoriale.