Parla l’ex segretario di Rifondazione comunista

Intervista a Fausto Bertinotti: “Non serve indignazione per le morti sul lavoro, ma disvelamento degli orrori liberisti”

“Le morti sul lavoro? L’indignazione è inutile se non è accompagnata dal disvelamento degli orrori liberisti. La lotta di classe l’hanno cominciata tanti anni fa i padroni contro i lavoratori ai cancelli di Mirafiori. Ma la sinistra ha accettato passivamente il capitalismo finanziario: se non torna dalla parte dei lavoratori, non tornerà affatto”

Interviste - di Graziella Balestrieri

11 Dicembre 2024 alle 12:30

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Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica
Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica

La stagione politica del presidente francese Emmanuel Macron ormai al capolinea, la crisi di Stellantis che non è di oggi ma che ha inizio trent’anni fa. I lavoratori abbandonati e schiacciati dal capitalismo feroce, che rischiano quotidianamente la loro vita percependo i salari più bassi d’Europa. Gli scioperi, i sindacati di nuovo in marcia, la mancata libertà di manifestare, una sinistra che non c’è, anzi che è diventate liberale. Di questo parliamo con l’ex segretario di Rifondazione comunista, ex sindacalista ed ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti.

Dobbiamo purtroppo partire dall’ennesima tragedia. A Calenzano ancora morti sul lavoro. Ormai è una strage conclamata.
Per tanto tempo ho gridato basta contro i morti sul lavoro, e penso che si debba gridarlo ogni volta, per non rinunciare all’indignazione. Ho imparato dai miei maestri che l’indignazione di per sé è necessaria, e per prima cosa bisogna vivere l’indignazione e trasformarla in forza sociale e politica. Perché queste tragedie sono il punto limite che dice quanto il lavoro è schiacciato dal profitto e dal primato delle imprese del mercato. Tutto questo è terribile e ogni volta diciamo così. Ma questo volto che si presume innocente dell’impresa e del mercato va disvelato nella sua crudeltà reale e questa è un’operazione politica cultura che dobbiamo fare a tutti i costi

Gli stipendi più bassi d’Europa, la sanità al collasso, nessuna traccia di un piano industriale. Precariato. Può essere il lavoro il collante per un nuovo patto vincente tra sinistra e italiani?
Continuo a pensare che, se il miraggio è il governo, una soggettività critica di cui il paese ha bisogno non la si costruisce. Per ricostruirla, questa soggettività critica, bisogna fare un processo di fondazione nella società italiana. Di costruzione di una coalizione sociale, di individuazione di un profilo politico culturale antagonista. Di fronte alle tematiche che lei ha indicato, aggiungerei la guerra, l’elemento costitutivo non può che essere un’opposizione di sistema, al sistema economico della guerra, al sistema economico del comando dei pochi, al sistema economico che consente di remunerare altissimamente capi d’azienda che hanno fatto perdere occupazione e chiuso stabilimenti. O questo capitalismo finanziario globale viene affrontato sul terreno politico, culturale, sociale oppure lo scontro è assolutamente in agguato. Ripartire dal lavoro, certamente. Ma bisognerà pensare anche perché da venticinque anni – e ripeto venticinque anni – le sinistre politiche non hanno saputo affrontare non il tema del lavoro ma i problemi delle lavoratrici e dei lavoratori. Perché hanno potuto accettare un sistema che ha determinato i salari più bassi d’Europa? Perché il lavoro è precipitato dagli altari alla polvere? Perché dalle conquiste degli anni 70 siamo precipitati alla cancellazione dei diritti dei lavoratori e persino della rivendicazione salariale? Perché non c’è una richiesta di aumento generalizzato dei salari, degli stipendi, delle pensioni, per dire una cosa banale, da aggiungere al salario minimo? La risposta è in ciò che ha detto Bernie Sanders. “Perché i democratici perdono contro Trump?”, gli è stato chiesto. “Perché i democratici hanno abbandonato i lavoratori”, ha risposto. De te fabula narratur: la risposta parla di noi. Il mio non è un j’accuse ma una critica politica: la sinistra è diventata liberale, cioè, ha assunto il paradigma del mercato per usare la formula lucidissima di uno dei più grandi economisti italiani del Dopo guerra, Claudio Napoleoni. La sinistra ha accettato il vincolo esterno contro il vincolo interno, vale a dire la competitività delle merci contro i bisogni delle popolazioni lavorative. Questo è un punto che, se non viene rimosso non ci farà andare da nessuna parte. Ho molto apprezzato lo sciopero generale e la decisione della Cgil e della Uil di effettuarlo, anzi moltissimo. Ho vissuto con reale partecipazione il sacrificio dei lavoratori di partecipare così significativamente ad uno sciopero così difficile. Ma penso che l’inesistenza di una sinistra politica capace di proporre la difesa del lavoro, il che vuol dire la critica al modello economico sociale esistente e insieme una costruzione di un fronte di lotta su rivendicazioni immediate, – e ripeto, non capisco perché non si alzi la bandiera di un aumento generalizzato dei salari – da mettere a fondamento per una grande mobilitazione sociale generalizzata. Occorre passare da uno sciopero generale allo sciopero generalizzato, che investe cioè i lavoratori senza tutele, che investe le mille forme di lavoro nero, in grado di dare loro una soggettività organizzata a cui appigliarsi: è un cammino difficile ma secondo me indispensabile. Senza questo cammino, non credo che si riuscirà a costruire neppure politica. Insisto: per me la questione fondamentale è l’alternativa di società e quindi la costruzione di una forza sociale politica che diventi protagonista di questa battaglia.

Quando parla di sinistra parla del Pd o di forze alternative?
Io intendo quelle che si chiamano così. Ormai invecchiando sono abituato a chiamare ognuno con il nome che si dà. Ci aggiungo la sinistra reale, faccio sulla sinistra politico istituzionale la stessa cosa che si faceva un tempo con l’Unione Sovietica, quando si parlava di socialismo reale per distinguerlo dal socialismo delle grandi ambizioni. Questa sinistra reale in Italia, ma sostanzialmente in tutta Europa, ha bisogno di una rifondazione per essere sinistra. Sa sinistra è stata tale quando aveva dei nomi comuni chiari – comunista, socialista, persino social democratica, laburista – dei nomi che erano dei programmi, senza questo presupposto è difficile autodefinirsi. Ricordo una bellissima battuta di Rossana Rossanda. Una volta le chiesero: “ma lei è di sinistra?” Lei fece una pausa e poi rispose: “Io sono comunista”. C’erano politici allora perché c’era la politica, forse siamo l’ultima generazione politica della sinistra italiana. E lo è stata, politica, perché quella sinistra portava quei nomi e quelle ambizioni. Ormai si è fatta quasi strada l’idea che ci si possa occupare dei lavoratori quasi caritatevolmente perché sono poveri, perché stanno male, perché soffrono – che sono ragioni validissime intendiamoci – solo che questa non è una risposta politica. Per poter difendere i lavoratori bisogna sapere contro chi e contro che cosa difenderli. Senza questa chiara determinazione, i lavoratori non si difendono e soprattutto non si contribuisce a costituirli in una soggettività sociale e politica.

Parlando di lavoro è inevitabile chiederle della questione Stellantis. Il governo balbetta, esulta per l’addio di Tavares, ma fatto fuori Tavares è tutto risolto e i lavoratori dell’automotive italiano possono stappare lo champagne?
Non ci hanno pensato prima ai lavoratori e non ci pensano adesso…vedo che anche le destre insorgono contro questo capo d’azienda, ma vorrei ricordare che Stellantis e prima la Fiat da cui Stellantis nasce, non è che smettono di crescere per la sfida dell’auto elettrica. Mirafiori viene svuotata trent’anni fa. La parabola discendente della Fiat comincia da una vicenda che si configura come lotta di classe, cioè la sconfitta del popolo dei cancelli dopo i trentacinque giorni di sciopero, di lotta alla Fiat. E da lì comincia quello che Luciano Gallino ha chiamato precisamente il rovesciamento del conflitto di classe. Da quel momento lì la lotta di classe c’è stata ma l’hanno fatta i padroni contro i lavoratori. L’ha fatto la Fiat contro i suoi lavoratori e poi Stellantis contro i lavoratori di Stellantis. Vorrei ricordare che la Fiom fu lasciata sola quando, mi sembra nel 2010, Marchionne costruì un progetto di discriminazione nei confronti dei lavoratori e dei sindacati combattivi. E poi una volta che tu sei sconfitto ciò che è sfruttamento e anche progressiva finanziarizzazione dell’industria viene considerato naturale. Adesso tutti scoprono le pecche di Stellantis, ma in corso d’opera non c’è stato un granché. Certi fenomeni erano in corso da tempo. Le delocalizzazioni, lo spostamento degli stabilimenti in diversi paesi inseguendo la forza lavoro laddove la si trovava al prezzo più basso, l’idea che l’arricchimento degli azionisti diventava l’unico obiettivo dell’azienda e non invece l’organizzazione della produzione, perché i profitti si potevano trarre/portare, attirare altrove e altrimenti: tutto questo procedimento non è altro che il passaggio dal capitalismo fordista taylorista al capitalismo finanziario e trovo davvero un po’ sorprendente che sia mancata una critica di sistema nel corso di tutto questo processo. Quello della Fiom è stato un passaggio cruciale: la Fiom è stata sostanzialmente isolata. E poi ci sono tutte le debolezze del sindacato di questi ultimi vent’anni, perché progressivamente si è determinato un processo di istituzionalizzazione delle organizzazioni sindacali. Alcuni settori hanno provato a sottrarsi, però basti vedere l’andamento dei salari: la dinamica salariale è testimonianza dello stato di salute dei sindacati. non si scappa.

Il governo ha tentato sinora di ostacolare in tutti i modi, leciti e illeciti, ogni forma di protesta. Addirittura, il pacchetto sicurezza impone l’arresto per chi manifesta, in strada da cittadino o in carcere da detenuto. Dopo due anni di governo Meloni, siamo ancora nell’alveo della democrazia o in Italia qualcosa è cambiato?
Non si può guardare solo agli ultimi due anni, ma bisogna guardare agli ultimi vent’anni, in cui si è manifestata una crescente crisi della democrazia e una crescente demolizione o auto demolizione della democrazia rappresentativa. Il Parlamento è stato soffocato non oggi, ma ieri dalla centralità del governo, sempre prevalentemente attribuita da larghissimi schieramenti politici, dall’accettazione sistematica del primato del governo sul Parlamento, con le decretazioni d’urgenza, i voti di fiducia, con un Parlamento ridotto a cassa di risonanza del governo sul terreno della democrazia rappresentativa. Basterebbe vedere come la legislazione è stata una legislazione progressivamente rivolta contro gli interessi dei lavoratori. Adesso siamo di fronte ad un attacco sistematico al diritto di sciopero e addirittura siamo davanti a leggi che vorrebbero condannare le manifestazioni di strada. Però è un continuum, è un filo rosso che si dipana lungo gli ultimi venti anni. Una situazione che deve rimettere in discussione le politiche fin qui adottate anche da parte di coloro che vogliono contrastare le destre.
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Parlava poc’anzi di demolizione della democrazia. Anche in Francia la situazione è parecchio ingarbugliata, a tal proposito. Ma un primo punto fermo possiamo forse metterlo. Comunque vada a finire, la stagione di Macron è al capolinea?
Il macronismo certamente è morto e credo che Macron sia politicamente finito. Macron presidente della Repubblica può ancora avere un cammino terminale, ma in ogni caso la sua parabola è finita perché non ha saputo interpretare la domanda di cambiamento che si è espressa anche nelle elezioni. Il punto di avvio di questa crisi è stato il rifiuto sistematico del Presidente di offrire l’incarico di capo del governo alla formazione che aveva vinto le elezioni contro Le Pen, in una condizione in cui le Nouveau Front Populaire (Nfp), di cui molti si sforzano di individuare le pure distinte differenze interne, aveva indicato un candidato unico, Lucie Castets. Eravamo in quel frangente di fronte a una fisiologia della costituente fondativa della repubblica francese, che con il sistema maggioritario era in grado di “disegnare” il Presidente della Repubblica. Per un quarto di secolo in Italia ce l’hanno menata sulle magnifiche sorti e progressive del sistema francese che avrebbe garantito la stabilità, contro questo sistema italiano claudicante, che produce crisi di governo sistematicamente, e oggi invece si rivelano due cose: la prima è che non esiste ingegneria istituzionale che risolve il problema del mancato consenso politico a una classe dirigente, se non c’è. Puoi fare tutte le architetture che vuoi ma non reggi, ed è questa la crisi della Repubblica francese. La seconda è che il capo dello Stato ha fatto un colpo di stato bianco, rifiutandosi sistematicamente e tenacemente di fare l’unica cosa ragionevole, cioè quella di dare l’incarico a un’espressione della forza che aveva vinto le elezioni.

Macron. Che giudizio possiamo dare di questa lunga parentesi pseudocentrista?
Vorrei ricordare che Macron è stato definito le “premier ministre des riches”, il primo ministro dei ricchi, e che Macron ha sopito /subito la crescita di movimenti popolari molto rilevanti, che è stato il protagonista di una vicenda, quella delle pensioni che ha spaccato la Franciam rivelandosi così incapace di capire il movimento a sinistra della società. L’aggravante per Macron è non solo che non capisce la sinistra come non capisce i movimenti ma che tradisce il risultato di una tradizione storica della storia francese, cioè la disciplina repubblicana contro la destra.

La sinistra francese però si divide, tanto per rinverdire la tradizione. I socialisti sembrano pronti ad appoggiare una sorta di governo di unità nazionale, mentre Mélenchon si è tirato fuori.
Non sono così sicuro che i socialisti lo faranno. Perché per farlo devono rompere con le scelte che hanno segnato il cammino dell’ultimo periodo. L’esponente di maggior rilievo del campo socialista, cioè Raphael Glucksmann, avversario di Mélenchon, ad una domanda ben precisa anche se un po’ provocatoria (“lei che è sempre stato così radicalmente avverso a Mélenchon perché si allea con lui?”) ha risposto tranquillamente: “Perché Mélenchon, cioè la France Insoumise, non è oggi un pericolo per la Francia, l’unico pericolo è Marine Le Pen”. Ed è questo che appunto motiva la disciplina repubblicana. I socialisti per fare ciò che chiede loro di fare Macron devono operare una rottura che, secondo me, li condannerebbe all’eutanasia. Secondo me fa bene le Nouveau Front Populaire a rivendicare il rispetto della regola non scritta ma fondativa della logica della repubblica francese, secondo cui la maggioranza seppur relativa delle elezioni ha diritto alla candidatura. Se il presidente della Repubblica fa un’insormontabile opposizione a un elemento costitutivo della Repubblica non gli rimane che dimettersi. Non lo farà naturalmente, intendiamoci bene. Però siamo in una crisi sistemica. Su questo punto insisto molto, e lo considero un punto cruciale: la Francia ha vissuto straordinari momenti di mobilitazione sociale come quella dei gilets jaunes, sottovalutati e misconosciuti dalla cultura politica italiana ma invece potenti, anche come manifestazione di democrazia diretta che hanno attraversato la Francia. Basta pensare alle esperienze dei ronds-points, luoghi dove si sono formate assemblee democratiche che sono state le spine dorsali del movimento. E poi bisogna ricordare che contro la riforma delle pensioni ci sono stati sei scioperi generali, c’è statp dunque un movimento di fondo che ha animato la società francese contro le politiche neoliberali, un movimento di fondo che ha messo in crisi il macronismo. Questo movimento di fondo è stato il protagonista della crisi del sistema politico francese e finché di questo movimento non sarà letto appieno il significato e la portata la crisi francese non finirà.

Pietro Folena ha parlato sull’Unità della necessità di una nuova Epinay per la sinistra francese. Condivide?
Ne abbiamo parlato tante volte di Epinay, perché apparteniamo ad una generazione politica che vide in questa svolta di Mitterand una modalità di rinascita della politica. Però dopo Epinay c’è la lunga marcia di Mitterrand che per due elezioni consecutive perde prima di guadagnare la presidenza. Epinay è un’esperienza innovativa perché raduna tutte le sinistre socialiste di varia estrazione, diversissime tra loro. Basti pensare che la prima fase di Epinay è una fase convulsa, caotica, non si capisce niente. C’erano davvero tutti e vorrei ricordare che l’atto fondativo di quella svolta è il convincimento di Mitterand, secondo cui senza riscoprire una radice (prossima) non si va da nessuna parte. Epinay non è semplicemente un assemblaggio di forze ma è un’idea. Quella che esprimerà Mitterand quando dirà “qui stiamo fondando il nuovo partito socialista francese” e indicando la porta della sala dice “chi non è contro il capitalismo esca pure da quella porta”. Dunque, Epinay è un atto fondativo in cui i socialisti riscoprono la loro radice anticapitalistica e infatti poi il primo governo Mitterand sarà molto di sinistra, naturalmente. Ma c’è anche un atto fondativo radicale: un assemblaggio in cui ci sono dentro tutto e tutto con una collocazione nettissima a sinistra, compresa l’apertura al partito comunista per fare fronte comune, capace di trasformarsi in quella che poi diventerà la maggioranza di Mitterand. Ma in quell’esperienza c’è anche un lungo cammino, quello del rapporto con la società francese, senza pensare al governo nell’immediatezza ma piuttosto alla costruzione di una soggettività politica radicale e larga.

È stato nuovamente ad Atreju…come mai?
Le uniche volte che sono stato invitato ci sono andato, secondo una disciplina che è tipica della tradizione comunista, ovvero quella secondo cui si discute nei luoghi pubblici con tutti, compresi gli avversari. È quasi una divisa quella, è andata persa, ma questo non cambia il fatto che siamo eredi di una grande tradizione. Quindi quando diciotto anni fa sono stato invitato, allora fece scandalo ma ci andai, sono stato invitato quest’anno e senza scandalo ci sono andato.

11 Dicembre 2024

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