Il portavoce di Amnesty Italia
Parla Riccardo Noury: “Amnesty ha fatto ricerche per nove mesi, a Gaza è genocidio”
«Abbiamo fatto 9 mesi di ricerca sull’intento genocida di Israele, ci sono prove di tre dei cinque elementi che costituiscono questo crimine. L’efficacia della Cpi dipende dalla cooperazione degli Stati che hanno sottoscritto il suo Statuto»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. La Corte penale internazionale ha emesso mandati di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità nei confronti del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e un capo di Hamas. Il G7 ha decretato che Netanyahu gode dell’immunità. E così anche Paesi che riconoscono la Corte. Come la mettiamo?
Nello stesso periodo in cui ha spiccato mandati d’accusa nei confronti di Netanyahu e Gallant, nonché nei confronti dell’unico dei tre indiziati di Hamas forse ancora in vita (gli altri due, come noto, sono stati uccisi dalle forze israeliane che hanno sostituito a quella internazionale la “giustizia fai da te”), la Corte ha fatto esattamente lo stesso nei confronti di sei libici, appartenenti al gruppo armato al-Kaniat, accusati di crimini contro l’umanità. La procura della Corte ha poi sollecitato l’emissione di un mandato di cattura per crimini contro l’umanità, commessi nella seconda parte dello scorso decennio contro la minoranza rohingya, dall’allora capo delle forze armate di Myanmar e ora leader della giunta militare al potere dal 1° febbraio 2021, Min Aung Hlaing. Non mi pare che queste attività giudiziarie abbiano ottenuto grande interesse né che abbiano provocato levate di scudi. Quindi la mettiamo che il tema dell’immunità viene sollevato verso gli amici.
Per crimini di guerra e contro l’umanità è sotto mandato di cattura internazionale anche Vladimir Putin. Lui, però, non gode dell’immunità nei Paesi che riconoscono la Corte e neanche in alcuni di quelli che non vi hanno aderito, in primis gli Usa. Siamo alla riproposizione del doppio standard?
È sempre la solita storia: da quando ha iniziato a uscire dal recinto che le era stato costruito intorno (ossia i dimenticati e “innocui” conflitti africani), la Corte è stata suo malgrado coinvolta nei “doppi standard” dominanti nella comunità internazionale: coprire gli amici, colpire i nemici. Dunque, elogiarla quando incrimina i secondi, delegittimarla o accusarla di politicizzazione quando incrimina i primi. Questo conferma quello che Amnesty International sostiene da sempre: al di là della maggiore o minore sensibilità di chi succede a capo della procura della Corte (ci sono certamente indagini arenate, come quella sull’Afghanistan, perché si discute da anni se debba anche riguardare le forze internazionali presenti dal 2001 al 2021 nel paese), l’efficacia di questo organismo della giustizia internazionale dipende dalla cooperazione degli stati che hanno sottoscritto il suo Statuto (che, non dimentichiamolo mai, venne adottato a Roma, nel luglio 1998, su grande impulso dei movimenti per i diritti umani e naturalmente anche del governo italiano dell’epoca). Oggi, 124 stati hanno l’obbligo di arrestare i latitanti ricercati dalla giustizia internazionale, qualora si trovino sul loro territorio: Putin, Netanyahu, capi della difesa di Russia e Israele, miliziani palestinesi o libici o golpisti birmani che siano. In questi giorni, invece, sentiamo parlare di decisione oltraggiosa della Corte, di giustizia politicizzata, persino di “sentenza”, affermazione che causerebbe una bocciatura al primo esame di Giurisprudenza. Poi ci sono sotterfugi come i richiami all’immunità: ma nel suo statuto, la Corte non riconosce l’immunità alle più alte cariche dello Stato e il fatto che Israele non sia stato parte dello Statuto poco importa. Se gli estensori dello Statuto avessero ceduto, lasciando preminenza alla regola di diritto internazionale consuetudinario che prevede l’immunità personale per le più alte cariche mettendole al riparo dai procedimenti finché duri il loro mandato, non avrebbe neanche avuto senso creare la Corte. Sarebbe bene che gli Stati parte dello Statuto di Roma che, in questi giorni, stanno partecipando alla loro 23esima assemblea, se ne ricordassero. Così come si ricordassero che, quanto meno negli Stati di diritto, non è compito dei governi prendere decisioni del genere. Ci sono leggi (quella italiana è del 2012) che attribuiscono il ruolo di dare esecuzione alle richieste di cooperazione della Corte ai giudici statali e non all’esecutivo.
Amnesty International ha documentato in decine di dettagliati rapporti, i crimini di guerra commessi da Israele e da Hamas. Ma il dibattito in Italia ruota sempre, soprattutto nella stampa mainstream, sull’uso del termine “genocidio” applicato a Gaza. Ma agli oltre 45mila morti, cifra in difetto, nella Striscia, in maggioranza donne e bambini, e a una popolazione ridotta alla fame, nulla importa della definizione, ma dell’impunità di cui continua a godere Israele.
Da oggi quel termine, “genocidio”, lo usa anche Amnesty International. Abbiamo fatto nove mesi di ricerca sull’intento genocida di Israele rispetto a tre dei cinque elementi che costituiscono il crimine di genocidio: uccidere membri di un gruppo, causare gravi danni fisici e mentali ai membri del gruppo, infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita calcolate per provocarne in tutto o in parte la distruzione fisica. Abbiamo verificato l’esistenza di quell’intento genocida e abbiamo individuato quello palestinese come “gruppo protetto” in quanto gruppo “nazionale, etnico, razziale e religioso”. Queste espressioni sono tratte dalla Convenzione sul genocidio del 1948, ratificata da Israele nel 1950. L’intento genocida lo abbiamo verificato nella condotta militare israeliana nella Striscia di Gaza: negli attacchi diretti contro la popolazione civile e contro obiettivi, strutture e infrastrutture fondamentali per la vita dei civili, nei continui trasferimenti forzati a seguito di ordini di evacuazione che hanno riguardato il 90% della popolazione, negli ostacoli all’arrivo degli aiuti umanitari. Lo abbiamo ravvisato in numerose dichiarazioni di esponenti di primissimo piano delle istituzioni israeliane, dalla definizione dei palestinesi come “animali umani”, all’asserita inesistenza di una distinzione tra civili palestinesi e miliziani di Hamas, o nel paragone con fatti biblici come il richiamo alla completa distruzione di un’intera nazione, il popolo di Amalek. Non si tratta, come è ovvio, di paragonare la situazione nella Striscia di Gaza alla Shoah, all’Holodomor, al Porrajmos o ad altri genocidi, quattro dei quali giudicati tali solo negli ultimi 30 anni. Il confronto non è con la Storia ma col Diritto. Né, di fronte alla “distruzione in tutto o in parte di un gruppo”, contano i numeri: nessuno, salvo i negazionisti più accaniti, ha osato discutere il fatto che quello di Srebrenica, in Bosnia nel 1995, sia stato sancito ufficialmente come genocidio, sebbene le vittime siano state poco più di 10mila.
Questa vicenda ripropone con forza un tema caro ad Amnesty International: la diplomazia dei diritti. Una diplomazia terremotata…
Oggi quell’espressione sembra svuotata di senso, un vero e proprio ossimoro, una frase orwelliana. Devo richiamare un concetto espresso sopra: i doppi standard. Siamo prossimi al 10 dicembre, la Giornata internazionale dei diritti umani. Anche quest’anno, nel suo 68esimo anniversario, dovremo constatare che la Dichiarazione universale dei Diritti umani resta una nobile dichiarazione d’intenti, la visione di un mondo libero dalla paura, dal bisogno, dalle repressioni e dalla violenza cui è stato preferito un mondo peggiore. Tutto questo in un anno in cui milioni e milioni di persone sono scese in piazza per reclamare diritti in decine di paesi: Bangladesh, Nigeria, Pakistan, Kenya così come anche le piazze europee, per i diritti nostri e per quelli degli altri. Il numero degli stati in cui la protesta pacifica viene repressa aumenta costantemente e c’è dentro anche l’Italia. Nondimeno, è quella protesta che tiene alta la richiesta di cambiamento. Se la diplomazia dei diritti delle istituzioni sta collassando, la diplomazia dei diritti delle piazze sta prendendo vigore. A luglio, gli studenti del Bangladesh scesi in strada contro la legge che assicurava una quota abnorme di posti di lavoro nell’amministrazione pubblica agli eredi della guerra di liberazione del 1971 avevano messo in conto che sarebbe scorso il sangue e, in effetti, centinaia sono stati uccisi. Qualcuno di loro, nelle poche ore di sonno notturno, sognava che la Prima ministra Sheikh Hasina avrebbe ceduto il potere e che al suo posto sarebbe stato chiamato a guidare il paese un Nobel per la pace, Muhammad Yunus. È quello che è successo, in appena tre settimane. Hanno osato sognare e hanno vinto. Un’ispirazione per il mondo intero.
Da Saïed ad al-Sisi, da Assad a Netanyahu. Il Vicino Oriente è marcato da autocrati o peggio. Un destino ineluttabile?
Aggiungiamo il saudita Mohamed bin Salman e la leadership iraniana e completiamo il quadro. È un periodo storico infausto, indubbiamente. Ma se quella parte di mondo è caratterizzata da un profondo e totale diniego dei diritti, accusare di volta in volta le popolazioni locali di non essersi opposte, sollevate, ribellate è cinico e persino falso. Si sono ribellate eccome, più volte nel corso dei decenni della Repubblica islamica iraniana e in massa durante le cosiddette “primavere arabe” del 2010-11. Quelle rivendicazioni di diritti le abbiamo tradite e abbandonate, lasciando che in Siria Assad le reprimesse spietatamente con l’aiuto della Russia, rendendo l’Egitto di al-Sisi paese amico oltre che, incredibile a dirsi, “sicuro”. Tanto “sicuro” quanto lo è la Tunisia, dove Kaïs Saïed ha completamente tradito la rivoluzione del 2010-11. Però è un nostro caro amico.