Il nuovo libro dello studioso
Parla Gadi Luzzatto Voghera: “A furia di parlarne a sproposito si è svilita la parola genocidio”
«Se ci si inoltra su questa strada, tutto il lavoro di crescita civile compiuto nell’ambito della riflessione sulla memoria della Shoah rischia di uscirne indebolito, e questo è un danno alle nostre democrazie»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Un libro importante. Coraggioso. Di stringente, drammatica attualità. Un libro che affronta di petto, con spirito critico e grande onestà intellettuale, un tema che divide, infiamma, che tocca ferite ancora sanguinanti: Sugli ebrei. Domande su antisemitismo, sionismo, Israele e democrazia (Bollati Boringhieri, 2024). L’autore è Gadi Luzzatto Voghera, figura di primissimo piano nell’ebraismo italiano. Direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC). Studioso di Storia contemporanea, specialista in Storia degli ebrei e dell’antisemitismo, è membro della delegazione italiana nell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).
Le decisioni prese dai giudici della Corte penale internazionale contro Netanyahu? È antisemitismo. Il rapporto Onu sugli atti genocidiali a Gaza? È antisemitismo. Professor Luzzatto Voghera, ma non c’è un abuso di un termine che dovrebbe essere maneggiato con estrema cura?
La cosiddetta working definition di antisemitismo varata nel 2016 dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance ndr) costituisce la base testuale – ancorché discussa in ambito accademico – su cui si conformano tutte le principali strategie internazionali e nazionali di contrasto all’antisemitismo. Richiamare quel concetto per censurare atti politici o provvedimenti giudiziari a mio parere è inopportuno. Non conosco le inclinazioni personali di chi guida la Corte penale internazionale o di coloro che hanno redatto il rapporto Onu, ma trovo che il disaccordo sulle loro posizioni debba esprimersi su un piano politico, senza scomodare concetti come l’antisemitismo. Detto questo, è assai evidente il trattamento sbilanciato che questi organismi riservano a Israele – che, lo vorrei ricordare, è una democrazia parlamentare – rispetto ad altri regimi dittatoriali che perseguono da decenni politiche oppressive e stragiste che non sono mai state oggetto di interventi da parte delle suddette istituzioni internazionali. Sa cosa penso? Che alla base di queste azioni – il rapporto Onu o l’incriminazione da parte della Corte penale – ci sia una visione distorta e pregiudiziale della realtà democratica di Israele. Da mesi settori maggioritari di quella società chiedono l’istituzione di una commissione d’inchiesta che ha come soggetti Netanyahu e il suo governo, oltre che i vertici militari. Un processo di verifica democratica dai forti risvolti politici. E proprio nei giorni in cui più forte si fa la pressione in quella direzione, spuntano questi organismi internazionali che fanno lo sgambetto e accusano di genocidio Israele e i suoi ministri. Tutto questo frena il processo democratico interno e ricompatta una società che si sente attaccata nel suo complesso, un paese che sente forte la minaccia dettata, forse, anche da un crescente pregiudizio antisemita.
Si dice: l’antisionismo è la versione più subdola e pericolosa dell’antisemitismo. Non è una forzatura?
Anche in questo caso richiamo la definizione operativa dell’IHRA che su questo punto è molto esplicita e chiarificatrice. Chiunque è legittimato a criticare le azioni del governo di Israele. La polemica verso le sue azioni e strategie è vivace anche all’interno del mondo ebraico ed è ben presente in Israele. Questa polemica non è antisemitismo, e anche quando viene declinata in termini dichiaratamente antisionisti (come fanno ad esempio alcuni gruppi ultraortodossi) non si può definire come antisemita. Purtroppo, però, sono molto diffusi linguaggi sulla rete web, sui social e nelle piazze in cui il tema dell’ “antisionismo” viene declinato utilizzando gli strumenti classici del linguaggio politico antisemita. Si parla a vanvera di “complotto sionista”, si stabilisce un anacronistico e strumentale collegamento tra sionismo e imperialismo, si utilizzano nelle immagini – magari prodotte dall’intelligenza artificiale – stereotipi classici dell’antigiudaismo religioso per dipingere il soldato israeliano, la madre palestinese, il bambino martire. In questo caso la semplificazione nella costruzione dei messaggi politici non aiuta a comprendere la complessità del conflitto e solletica l’emersione di pregiudizi ancora ben radicati nelle nostre società. In tutti questi casi – e sono ahimè la grande maggioranza nella polemica antisionista di questi mesi – siamo evidentemente in presenza di antisemitismo. A domanda rispondo, quindi: dipende dai casi, non si può sempre dire che l’antisionismo sia antisemitismo, ma troppo spesso lo è.
Nel calderone infuocato della polemica è finito pure Papa Francesco.
Alcuni ambienti della Chiesa cattolica dopo il 7 ottobre non si sono comportati in maniera cristallina su questi temi. A più riprese si sono lette e udite dichiarazioni che stridono con lo spirito del Concilio Vaticano II e della dichiarazione Nostra Aetate in merito ai rapporti con il mondo ebraico. Io credo che di fondo ci sia una criticità duplice e irrisolta. Il capo della Chiesa è anche il capo di uno Stato. E d’altro canto, Israele è a sua volta uno Stato. In entrambi i casi parliamo di entità politiche che in qualche misura pretendono di rappresentare collettività religiose. Il Vaticano i cattolici, Israele gli ebrei. In periodi di crisi e di guerre i piani dialogici si confondono e il mondo della comunicazione va a nozze nel mettere in evidenza queste ambiguità. Naturalmente nel caso del Papa la questione è particolare perché ai più non è chiaro che la sua infallibilità (secondo la dottrina cattolica) è tale solo quando parla ex cathedra. Ma se interviene – come nel caso del brevissimo accenno alla questione del genocidio – su questioni di politica internazionale, la sua è l’opinione di un capo di stato. E sul tema abbiamo sentito tante sciocchezze negli ultimi mesi, espresse da molti esponenti internazionali di rilievo. Io penso che ci dovrebbe essere più cautela quando si parla di genocidio, perché è un tema che ci riguarda tutti, nel doloroso Novecento come nel tempo presente, e fare un uso dissennato di questo concetto rischia di annacquare un elemento cruciale per lo spirito umanistico e umanitario che dovrebbe essere alla base del governo del tempo presente.
Parlare di genocidio a Gaza è considerato un oltraggio alle vittime della Shoah. Non esiste altro genocidio al di fuori dell’Olocausto?
Si tratta proprio di un oltraggio, e non c’entra nulla l’idea – distorta – per cui non ci sarebbero altri genocidi al di fuori della Shoah. Nessuno ha mai sostenuto nulla del genere e non si tratta di attivare competizioni tra vittime della storia. Non c’è dubbio che a Gaza si sta compiendo una tragedia, e tutti gli attori in campo ne sono responsabili: l’esercito israeliano, i terroristi di Hamas e della Jihad islamica, l’Egitto, l’Iran, il Qatar sono sicuramente i primi e non in ordine di colpa. Questo però non ha nulla a che vedere con la falsa equazione colpevolizzante che indica (e questo è antisemitismo) gli israeliani come “vittime che si fanno persecutori”. Questa accusa – comunissima – parte dal presupposto che quando si parla di ebrei si tratta di un’entità sempre uguale nel tempo. Non è così, per nessuno. Gli ebrei perseguitati, deportati e sterminati dal nazismo e dai suoi volonterosi alleati (italiani compresi) sono da collocare in un chiaro quadro storico che ha conosciuto dinamiche ben precise. Gli israeliani che combattono a Gaza (e su altri fronti aggressivi, come è noto) sono tutt’altra cosa, in tutt’altro contesto, e seguono strategie militari e politiche che non sono genocidarie, a mio giudizio. Ci sono organismi incaricati di valutare la questione e discuteremo le loro conclusioni quando e se le produrranno. Il mio timore è che per criticare e sanzionare un crimine di guerra in atto, si utilizzi a sproposito una categoria – quella del genocidio – che rischia di annacquarsi. Se ci si inoltra su questa strada, tutto il lavoro di crescita civile compiuto nell’ambito della riflessione sulla memoria della Shoah rischia di uscirne indebolito, e questo è un danno alla nostra società, alle nostre democrazie.
Edward Said, il più grande intellettuale palestinese, ebbe a scrivere che la tragedia dei palestinesi è essere “vittime delle vittime”.
Said è stato un maestro, e nelle sue parole ha posto la questione delle vittime al centro di una riflessione necessaria. Io penso che sia importante rifuggire dalle generalizzazioni. Anche se nel contesto del conflitto israelo-palestinese si sente spesso dire che la tragedia è data dal fatto che ci troviamo di fronte allo scontro tra due ragioni legittime, la situazione è ben più complessa. Nessun gruppo umano è “vittima” in senso puro e omogeneo. Come nessuno è “carnefice” o “colpevole” nel medesimo senso. Palestinesi e Israeliani sono società articolate, complesse e intrecciate tra loro, se non altro per motivi geografici. Ma anche perché condividono una storia comune, fatta di conflitto e di convivenza. Credo sia più rilevante partire da questa constatazione, se si vuole veramente lavorare a un percorso percorribile di pacificazione di quell’area del mondo.