Medio Oriente in fiamme
Intervista a Bobo Craxi: “Come mio padre cercò la pace in Medio Oriente, il prossimo presidente USA sarà più interventista”
«Serve non solo una via d’uscita del conflitto ma una soluzione duratura che prenda le mosse da una iniziativa europea, da un impegno di gestione dei territori martoriati ed un’interposizione di forze multinazionali che impediscano il protrarsi del conflitto»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Passione e competenza per la politica internazionale sviluppate nel tempo e che va oltre gli incarichi di governo ricoperti in passato (è stato sottosegretario agli Esteri con delega ai rapporti con l’Onu nel secondo governo Prodi). Da Gaza al Libano, dalla Siria all’Iran. Il Medio Oriente in fiamme. L’Unità ne discute con Bobo Craxi.
Bobo Craxi, so di toccare un nervo, personale e politico, ancora dolente. Ma suo padre, da leader del Psi e da presidente del Consiglio, si spese molto per sostenere la causa palestinese e avanzare proposte per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese e alla tragedia di Gaza. Partiamo dal recupero di questa memoria storica.
Innanzitutto, va ricordato il contesto nel quale vi fu un crescente impegno dell’Internazionale Socialista per avviare un processo negoziale della vicenda medio-orientale a partire dalla sconfitta del gruppo politico dell’Olp che nel 1982 fu costretto ad abbandonare il Libano dove aveva istituito il suo Quartier Generale. Fatah il braccio politico guidato da Arafat si convinse e fu convinto della necessità di abbandonare il terrorismo come strumento di lotta politica e si avviò ad una graduale internazionalizzazione della sua causa. Arafat venne a Roma nel 1982 ricevuto da Pertini, dal Ministro degli Esteri Colombo e dai Segretari della Sinistra. Nel 1983 un emissario di Fatah Isām Sartawi partecipò all’Internazionale Socialista in Portogallo, presente Shimon Peres, e in quell’occasione trovò la morte colpito da una fazione palestinese avversaria contraria alla svolta di Fatah; Venne mantenuto un impulso politico costante, il protagonismo italiano in Libano presente con la Forza Multinazionale aprì uno spazio per favorire un dialogo fra le parti in lotta per aprire una breccia anche nei settori progressisti più avanzati della società Israeliana al fine di convincerli della bontà della svolta della parte palestinese che infatti cessò il ricorso ad azioni terroristiche sconsiderate. È qui che l’azione di mio Padre Bettino fu particolarmente efficace ed assertiva.
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Una memoria che passa anche per Sigonella.
Il sequestro dell’Achille Lauro fu innanzitutto un’azione condotta contro la svolta moderata di Arafat che non a tutti parve convincente; scampato da poco ad un raid israeliano a Tunisi; contro di lui ed i suoi alleati occidentali, in particolare il governo italiano, si concentrò quest’azione. Tutto ciò che contribuiva al rinfocolarsi della lotta terroristica faceva fare passi indietro alle reali convinzioni che oramai stavano maturando nel gruppo dirigente di Fatah, contestato anche nei territori occupati per una presunta convivenza con gli oppressori. Ma la “buona condotta” degli anni successivi, per così dire, consentì ai negoziatori, fra i quali mio padre, di portare al cospetto dell’amministrazione americana ed anche ai governanti israeliani, sia detto di matrice progressista e socialista, una proposta di “federazione Giordano-Palestinese” ed una possibile gestione della fase di transizione dalla fuoriuscita degli occupanti da Gaza gestita dagli Europei con il concorso dell’Alleanza Atlantica; Ne parlò al Consiglio dell’Internazionale nel 1988 a Madrid (il governo spagnolo si offrì in seguito di ospitare la prima conferenza di pace che poi si svolse nel 1991) e successivamente al segretario di Stato Schultz; ricordo perfettamente perché partecipai ad un pranzo “informale” che si tenne a Washington sempre in quell’anno.
Gaza, Libano, ora l’Iran. Il Medio Oriente è in fiamme. Più che un rischio, la guerra regionale è già realtà. E la comunità internazionale sta a guardare.
Sono assai colpito dal fatto che la cosiddetta comunità internazionale al di là di esprimere un auspicio di cessate il fuoco e invocare una tregua umanitaria non sia andata. Eppure, a guardare bene le violazioni del diritto internazionale e gli accordi di pace sono state ripetute. Con l’avvento del governo delle destre religiose in Israele e con l’errore commesso da Abu Mazen nel 2021 che ha fatto slittare le elezioni in Palestina il quadro politico è rimasto sguarnito per quanto riguarda una prosecuzione ed un’implementazione degli accordi di pace. Al contrario sono continuate le provocazioni che da scaramucce sono diventati veri e propri attentati alla sovranità nei territori occupati che hanno visto una moltiplicazione di insediamenti illegali ai quali si sono aggiunte le umiliazioni a Gerusalemme dove sono stati sgomberati interi quartieri abitati da arabi palestinesi. Oggi siamo di fronte a questa escalation. Una pulizia etnica che si è conquistata l’accusa di Genocidio da parte della Corte Internazionale.
Cessate-il-fuoco, come passaggio obbligato. Ma ammesso che ci si arrivi, e dopo?
Ora il problema è individuare non solo una via d’uscita del conflitto ma anche una soluzione duratura che prenda le mosse da una iniziativa europea, da un piano di pace rinnovato, da un impegno di gestione dei territori martoriati ed un’interposizione di forze multinazionali che impediscano il protrarsi del conflitto e siano dotati di strumenti e mezzi tali per cui non finiscono sotto il fuoco come è accaduto di recente alla missione Unifil. Lo possono fare gli organismi internazionali; lo possono muovere anche le forze politiche mondiali a partire da quella socialista sempre proattiva nelle questioni di risoluzione delle controversie internazionali.
La rappresaglia “mirata” israeliana contro obiettivi militari, ma non petroliferi o nucleari”, in Iran rappresenta un ulteriore, definitivo passaggio alla guerra totale o il “contenimento “americano ha funzionato?
L’apertura del terzo fronte appare il completamento di una strategia prima invocata come necessaria e poi praticata da parte di Netanyahu. Quello che è certo è che essa ha avuto progressivi stop da parte dell’amministrazione americana, la cosiddetta fuga di notizie ne è una prova indiretta. Nessun candidato alla Casa Bianca d’altronde avrebbe tollerato l’apertura di una crisi regionale allargata, l’impressione che questa disponibilità non ci sarà neanche nel futuro. Certo non lo vogliono i paesi arabi alleati, quelli dei “patti di Abramo”, che si sono guardati bene di concedere lo spazio aereo per le incursioni israeliane. Se è un reale colpo di coda di questa strategia si verificherà nei prossimi dieci giorni. Certo è stato un attacco condizionato dalle circostanze un po’ meno favorevoli rispetto alle ambizioni ed alle aspettative.
Cosa resta della questione palestinese?
Resta molto se la si sottrae alla demagogia di chi ha su questo conflitto una visione settaria. Gli interlocutori che sostengono che quella palestinese sia soltanto una questione “umanitaria” si sbagliano di grosso. Così come quelli che insistono nel sostenere che Israele, potenza nucleare “opaca”, sia a rischio di esistenza mentre sta aprendo nuovi fronti di guerra ogni settimana. Penso che gli ultimi recenti attacchi missilistici in risposta alle offensive di Iran e Hezbollah siano gli ultimi colpi di coda. La nuova Casa Bianca sarà assai più interventista di quanto non lo sia stata sino ad ora. Io penso debba vincere la pace e che le armi dovrebbero tacere per lasciare spazio ad una soluzione corrente alle volontà della Comunità Internazionale che non può più sopportare il protrarsi di un conflitto profondamente ingiusto.
Chi “osa” parlare e scrivere di genocidio a Gaza viene subito bollato con il marchio d’infamia dell’antisemitismo.
Sono impressionato quando leggo di personalità che provengono dalla storia comune della sinistra italiana indossare l’elmetto e lanciare imperativi bellici “Israele deve vincere!”
Dal Medio Oriente all’Ucraina. L’Europa sembra conoscere solo la “diplomazia delle armi”. E la politica?
Attendiamo con fiducia l’esito della consultazione elettorale americana. Se da essa nascerà una tendenza che consolidi una volontà che è quella di aprire un dialogo con il blocco economico internazionale che viene dal consolidare ed allargare la sua sfera di influenza (Brics); sono due modelli di neocapitalismo che si stanno contrapponendo, essi non sopravviveranno in equilibrio se non vi sarà un pronunciamento chiaro ed esplicito della volontà di perseguire la Pace e la sicurezza nel Mondo che si può ottenere solo riaprendo le porte ad un dialogo ragionevole. Innanzitutto, sulla non-proliferazione ed utilizzo dell’arma nucleare e sulla comune volontà di risolvere le crisi regionali che si sono aperte. In questo contesto l’Unione Europea continua ad avere un ruolo da esercitare; chi scommetteva sulla sua inazione o indifferenza di fronte al rischio di allargamento sul suo territorio dei conflitti si sbagliava, però è un’azione timida e priva di una bussola. È necessario che l’Europa e innanzitutto il Socialismo Europeo, come un tempo, dia una risposta politica rianimando i nostri rapporti con i paesi più disponibili al dialogo. E mi pare che tanto nell’area euro-mediterranea che fra i paesi del Brics non manchino affatto queste disponibilità. Non è più la stagione di leader prestigiosi nell’area mediterranea, molti sono incagliati dentro le vicende dei propri paesi, ma è necessario più che mai dare uno sguardo alle nostre frontiere perché si sta giocando il futuro dell’Europa e del Mondo.