La "questione israeliana"

Intervista a Bobo Craxi: “Così mio padre pagò la crisi di Sigonella, ma ora nel Mediterraneo non contiamo più”

«La svolta conservatrice del 2001 ci ha privati dell’autonomia necessaria a un paese con una posizione strategica come la nostra. Un cambio di orizzonte che la destra sta confermando. L’accusa di genocidio a Israele? Dolorosa, ma la sinistra deve farci i conti»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

23 Febbraio 2024 alle 12:32

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Intervista a Bobo Craxi: “Così mio padre pagò la crisi di Sigonella, ma ora nel Mediterraneo non contiamo più”

La mattanza di Gaza, l’impotenza dell’Europa, i balbettii della sinistra, la “questione israeliana”. L’Unità ne discute con Bobo Craxi, già sottosegretario di Stato agli Affari esteri con delega ai rapporti con l’Onu nel secondo governo Prodi.

Perché a sinistra si fatica così tanto a usare il termine “genocidio” per definire ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza?
Quello che è avvenuto dopo il 7 ottobre ha provocato delle lacerazioni di carattere culturale in tutto l’Occidente ed anche in Italia in modo particolare. Al di là delle singole ragioni che hanno mosso diversi movimenti politici progressisti in questi ultimi cinquant’anni per le ragioni della sicurezza e dell’esistenza di Israele così come per quelle del popolo palestinese sempre si è impedito che le azioni di guerra condotte da Israele e la loro condanna tralignasse verso una censura di ordine morale verso quel popolo. Per la Sinistra Israele era la prospettiva realizzata del Socialismo Democratico, un faro liberale in una delle aree più conservatrici del Medioriente. Purtroppo la rappresaglia ai gravi fatti del 7 ottobre che è apparsa una riedizione moderna della legge del taglione prodotta da un governo finito nelle mani di un gruppo di fanatici religiosi, suscita una indignazione più larga nella sinistra liberale; ed il dolore è tanto più enorme perché conosciamo le angosce di tanti compagni progressisti israeliani anche di origine italiana, basiti dinnanzi a questa violenza ed a questa strategia senza sbocco. Quello che manca tuttavia è l’assunzione di una posizione di condanna chiara degli ultimi fatti ed una richiesta di provvedimenti sanzionatori più efficaci ed eloquenti. Per quanto possa essere dolorosa l’accusa di genocidio allo Stato di Israele esiste e bisogna fare i conti con essa anche a sinistra. Purtroppo, al contrario, assistiamo anche passivamente persino all’espulsione di fatto di cittadini italiani cooperanti in Cisgiordania o al danneggiamento di strutture delle nazioni unite o dell’Unione Europea costruite anche con il nostro contributo. Questo meriterebbe una protesta formale da parte del nostro paese.

La condanna dell’attacco sanguinoso di Hamas del 7 ottobre non è in discussione, ma resta il fatto che fino al 6 ottobre, la questione palestinese fosse scomparsa, cancellata, dall’agenda internazionale. Esisti solo se terrorizzi?
Con gli accordi di Abramo che di fatto tagliavano fuori il segmento sciita dell’area si stava predisponendo un quadro che indicava come inevitabile il corridoio del dialogo, partendo però da un presupposto che considero fallace: irroriamo il territorio medio-orientale di risorse economiche, la politica come l’intendenza seguirà. L’agenda Saudita sulla questione palestinese non è affatto politicamente diversa da quella dell’Anp e Netanyahu lo sapeva benissimo, l’idea di fondo di entrambi era solo quella di emarginare l’Iran dal futuro equilibrio politico che si sarebbe andato a determinare, un calcolo sbagliato perché con l’apertura del conflitto ucraino la Russia ha inteso rinverdire la propria capacità di influenza anche nel Medioriente e non è un caso che tanto i leader di Hamas quanto i governanti israeliani hanno fatto spesso la spola con Mosca. A volte cerchiamo di ignorare il fatto che l’Occidente è solo uno degli agenti in campo e certamente non l’unico. Ora esiste solo un modo per far cessare l’orrore: inviare una forza multinazionale di interposizione estendendo il mandato territoriale alla missione Onu già presente in Libano. Non ho capito perché insistere al Consiglio di sicurezza su un cessate il fuoco che non ci sarà senza una reale forza di dissuasione militare.

Chi, come la Relatrice speciale Onu sui territori palestinesi Francesca Albanese, documenta il sistema di apartheid di fatto instaurato da Israele in Cisgiordania, la violenza dei coloni, o le punizioni collettiva alla popolazione civile di Gaza, viene subito tacciato di antisemitismo.
Francesca Albanese certamente ha prodotto testimonianze preziose, difficile però attribuirle quel grado di neutralità che è necessaria quando si rappresenta la grande organizzazione multilaterale che sono le Nazioni Unite. Che ci sia una forma di apartheid è noto da ormai più di vent’anni; essa è simbolicamente rappresentata dal muro costruito da Sharon. Una forma di discriminazione che ha prodotto un’inevitabile reazione che si è spinta verso forme di fanatismo anti-semita. Io penso che in Italia questo non deve e non può accadere perché lo spirito laico dei democratici italiani è assai più forte dei rigurgiti anti-semiti che probabilmente in alcuni settori cattolici ed estremisti può continuare a permanere, ma la vigilanza politica e culturale continua ad essere assai robusta ed i casi, per quanto odiosi, rimangono isolati.

Cosa resta nella politica italiana, sia in chi governa e sia chi è oggi all’opposizione, di quella “vocazione mediterranea” che caratterizzò l’Italia nella prima Repubblica?
La politica mediterranea del dopo guerra fu uno dei piccoli capolavori della nostra diplomazia politica perché non solo uscivamo sconfitti dalla guerra ma ci eravamo resi protagonisti a cavallo dei due secoli di avventure coloniali non sempre commendevoli. Fu l’internazionalismo dei settori più avanzati della democrazia cristiana e della sinistra italiana, segnatamente il Psi nella sua azione di governo ed il PCI nella sua tendenza terzomondista a dotare il nostro paese di una visione meno ristretta e subalterna della politica estera. La svolta conservatrice avvenne dopo il 2001, la nostra linea di fatto si sovrappose a quella americana privando dell’autonomia necessaria ad un paese come il nostro che si affaccia sul mediterraneo e che ha una posizione strategica votata ad una politica di “buon vicinato”. Questo cambio di orizzonte strategico che la destra sta confermando in modo plateale ci viene spesso rimproverato da diverse leadership arabe, fu tentata una correzione della tendenza nella seconda esperienza governativa di Prodi (nel quale lavorai al fianco di D’Alema) ma fu troppo breve; rimane una significativa presenza militare italiana ai confini fra il Libano e Israele ma questa evidentemente non è stata considerata sufficiente per svolgere quel ruolo di mediazione che si renderebbe necessaria. Nonostante questo le esperienze di Moro, Andreotti, Craxi continuano ad essere un riferimento a cui ispirarsi.

A proposito di quella stagione politica. Se nomino Sigonella…
Sigonella è entrata nell’immaginario collettivo italiano come una grande pagina di difesa della sovranità e della dignità nazionale. Fu il primo vero tentativo di voltare pagina nel dopoguerra con una visione stereotipata di una nazione sconfitta attraversata dalle divisioni della Guerra fredda e per questo in perenne affanno per la sua instabilità politica e l’incubo terrorista che ne fu conseguenza diretta. Il conflitto mediorientale stava sullo sfondo di quell’incidente diplomatico che ci oppose agli Stati Uniti. il sequestro della nave fu un’azione rivolta dai movimenti palestinesi più radicali contro la politica di Arafat avviato verso apertura e dialogo con Israele. Sta di fatto però che la posizione italiana dell’epoca fu chiara circa il riconoscimento della lotta palestinese, il suo diritto all’autodeterminazione pur contestandone l’improduttività della lotta armata ma non la sua legittimità. Mio padre sottovalutò non all’epoca ma più tardi la reale portata dello strappo che fu compiuto nei confronti dell’alleato e anche di Israele. Per questa ragione si è detto che l’ondata di discredito politico e l’azione di demolizione anche internazionale che lo travolse all’inizio degli anni ’90 alla fine della Guerra fredda fu in qualche modo figlia di quell’episodio. Lui con senso realistico, nel suo esilio, lo escludeva; io devo dire, avendo acquisito con il tempo maggiori elementi, no. Penso che gliela fecero pagare.

Dall’Ucraina al Medio Oriente, alle tante guerre “dimenticate” che marchiano l’Africa: siamo già dentro quella guerra mondiale a pezzi, per usare le parole di Papa Francesco, e non ce ne siamo accorti?
L’equilibrio su cui si è fondato il Mondo dopo Yalta non esiste più, la globalizzazione economica non ha saputo rigenerarne un altro e quindi ogni crisi regionale finisce per trasformarsi in aperto conflitto mondiale. Non si sbaglia chi dice che l’anno da poco iniziato sarà decisivo per le sorti del pianeta che sta pagando un prezzo eccessivo alla mancanza di un nuovo equilibrio accettabile. Sono conflitti questi che si sono aperti che non promettono nulla di buono perché alle ragioni territoriali, economiche e politiche si sono aggiunte le dispute religiose che pensavamo retaggio di secoli lontani. I movimenti che lottano per la Pace non sono soltanto sospinti da principi umanitari ma sono il grido di dolore che si solleva perché alla base dei conflitti mondiali vi sono le enormi ingiustizie e diseguaglianze che permangono nel Mondo e che vanno assolutamente corrette.

Le elezioni più importanti del 2024 sono le presidenziali Usa. Trump-Biden: la gerontocrazia al potere?
Più che l’età dei contendenti alla Casa Bianca spaventa la radicale divisione della nazione faro dell’Occidente. Sarà un conflitto aspro che tuttavia porrà gli Stati Uniti di fronte alle sue enormi responsabilità verso il mondo intero. È inutile nasconderselo: le potenze che si mostrano ostili nel mondo continuano a guardare agli Stati Uniti con motivata preoccupazione perché il suo declino ha coinciso proprio con gli squilibri mondiali di cui parlavo poc’anzi. Mi auguro che sappiano rinnovare le ragioni che stanno all’origine della grande scommessa degli Stati Uniti che risiedono negli inossidabili principi della più antica Costituzione Democratica fondata sui valori di libertà e democrazia che sono la base ispiratrice delle più importanti Nazioni democratiche del mondo.

Il 2024 è anche l’anno delle europee. Al netto delle ricadute politiche interne, qual è la portata di questo voto sul futuro dell’Europa?
E’ un voto decisivo e gravido di incognite. C’è tuttavia un elemento di novità rispetto alle ultime elezioni europee ovvero che vi è stata nel tempo l’acquisizione di una maggiore consapevolezza della centralità del ruolo dell’Europa nelle prospettive del futuro degli equilibri mondiali. Mancano tuttavia le grandi forze di ispirazione europeista che non dimentichiamo sono state decisive e fondamentali per il raggiungimento dell’Unione Europea e parlo delle forze popolari e socialisti via via indebolitesi nel loro messaggio continentale, sostituite purtroppo da diverse categorie di europeisti che fanno della retorica spesso inconcludente .e sono i burosauri dell’europeismo che limitano la portata delle costruzioni europee rendendole asfittiche, cartacee e lontane dal sostegno dei popoli; questa attitudine ha portato non alla crescita dell’Europa ma ad una sua versione tecnocratica, irresponsabile politicamente, socialmente e persino moralmente indifferente, basti pensare come viene tratta la questione dei migranti. Per questo prima di immettersi in una campagna elettorale, che come d’abitudine sarà tutta rivolta alle questioni interne del nostro paese, sarà bene fissare dei principi sui quali noi dobbiamo porre il rilancio dell’Europa così come l’avevano immaginata le grandi forze politiche che contribuirono al suo varo. Essere euro critici come siamo non significa rifiutare la prospettiva che non potrà che essere di rilancio degli Stati Uniti d’Europa nei quali alle cessioni di sovranità dovranno corrispondere reali vantaggi per ciascuna nazione, a partire dal rafforzamento delle competenze della Commissione che passa inevitabilmente attraverso il riequilibrio del deficit democratico che continua a permanere all’interno dell’Unione. Bisogna insistere perché si accantonino tutti gli egoismi miopi, tutte le chiusure e gli accessi protezionistici e bisogna far sì che si esalti il carattere internazionalista dell’azione europea ,la sua lotta per la pace e per sicurezza per la difesa dei diritti dei popoli e dei diritti umani contro le diseguaglianze nel mondo e all’interno del nostre stesse società per difendere le ragioni del progresso, ma anche per saper agire di fronte agli squilibri di natura ambientale e tecnologico che può determinare.

23 Febbraio 2024

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