Il membro della Direzione nazionale Pd

“Caro Prodi, il destino del Pd non è essere junior partner della destra”, parla Arturo Scotto

«Avremmo dovuto rinunciare a parlare di salari, sanità pubblica, pace? A meno che non si pensi che per vincere bisogna somigliare alla destra... Se rimuoviamo dalla nostra analisi persino l’esistenza del conflitto sociale, coltivando l’illusione che tutti gli interessi in campo siano uguali, siamo fuori strada. Non è riformismo, ma conservatorismo»

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

30 Ottobre 2025 alle 07:00

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Photo credits: Alessia Mastropietro/Imagoeconomica
Photo credits: Alessia Mastropietro/Imagoeconomica

Arturo Scotto è capogruppo Pd alla commissione Lavoro della Camera e membro della Direzione nazionale del Partito Democratico.

“La sinistra ha voltato le spalle all’Italia”, afferma Romano Prodi. “Il Pd si è spostato troppo a sinistra”, rilancia Giorgio Gori. Siamo al “fuoco amico” contro Elly Schlein?
Non so se sia fuoco amico. So che è una lettura sbagliata. E aggiungo ingenerosa. Elly Schlein e il suo gruppo dirigente hanno dovuto scalare una montagna dopo le elezioni politiche di tre anni fa, quando eravamo considerati sul viale del tramonto come forza politica, senza alleanze e con la paura di precipitare nell’irrilevanza. Oggi siamo in campo, si delinea finalmente uno schema di coalizione progressista capace di vincere nei comuni capoluogo e nelle regioni. La partita non è affatto chiusa. Non so cosa significhi aver voltato le spalle all’Italia, mi sfugge il significato di questa frase così come quelle sulla deriva estremistica o sullo spostamento eccessivo a sinistra. Più che giudizi somigliano ad anatemi. Avremmo dovuto forse rinunciare a parlare di salari, di sanità pubblica, di difesa dei diritti umani fondamentali, di pace? A meno che non si pensi che per vincere bisogna somigliare alla destra e dare un po’ ragione anche all’avversario. Ma se guardiamo il destino dei socialdemocratici tedeschi o dei socialisti francesi capiamo che quella non è una strada praticabile. Finisci per fare il junior partner dell’avversario. Non è questo il destino del Pd a guida Elly Schlein.

Per aver sostenuto i referendum della Cgil ed essere parte del grande movimento contro il genocidio a Gaza e per il riconoscimento dello Stato palestinese, la Segretaria del Pd è stata tacciata di vetero-pacifismo, di subalternità a questo o a quello, di “sinistrismo”. Non è un po’ troppo?
Stiamo ai fatti. È giusto dire che l’assoluta libertà di licenziamento, la liberalizzazione dei contratti a termine, la corsa sfrenata verso i subappalti hanno indebolito il mondo del lavoro? Se è così, dove doveva collocarsi un partito che ambisce a rappresentarlo? Dovevamo dire no ai referendum che proponevano il superamento di leggi sbagliate? Magari perché era difficile raggiungere il quorum? Ma ci sono battaglie che fai anche sapendo che è molto difficile vincerle. Eppure, hai contribuito a portare 15 milioni di persone al voto, nonostante la campagna astensionista della destra. Che ha usato toni quasi eversivi, aggiungo. Dopodiché noi non siamo stati solo spettatori passivi: in questi mesi abbiamo costruito la proposta sul salario minimo. Ci siamo confrontati sui temi della sicurezza sul lavoro con proposte concrete, alcune delle quali sono diventate legge: dal badge di cantiere alla parità economica e normativa lungo la catena degli appalti fino all’assunzione di 500 ispettori sul lavoro in più. Allo stesso tempo, abbiamo presentato il libro verde sulle politiche industriali, ci siamo battuti per la riduzione dell’orario di lavoro, per il diritto alla disconnessione, per una legge sulla rappresentanza, per il superamento del part-time involontario, per i congedi paritari. Ma soprattutto siamo stati nei luoghi di lavoro e della produzione dove c’era un rinnovo contrattuale da portare a casa o un posto di lavoro da salvare. Rivendico questo impegno. Non siamo all’anno zero né abbiamo scelto solo la strada della mera protesta senza avanzare mai una proposta. Dalla destra non è arrivata quasi mai una risposta alle nostre istanze, fino addirittura a veri e propri imbrogli come la delega ottenuta due anni dopo l’affossamento del salario minimo in Parlamento dalla Ministra Calderone. Io mi sarei andata a nascondere al posto suo.

Stessa accusa, sinistrorsi, vetero-pacifisti, pro-pal quando il Pd è sceso in piazza contro il genocidio palestinese e a sostegno della Global Sumus Flotilla di cui lei ha fatto parte.
Forse si dimentica che in questi due anni gli italiani hanno guardato sconcertati al perpetrarsi di una strage senza precedenti sui civili innocenti e soprattutto sui bambini con le potenze occidentali inerti, impotenti e complici. Non parlare, non ribellarsi rispetto a quasi settantamila morti sarebbe stato immorale prima ancora che sbagliato politicamente. Che significa vetero-pacifismo? Evitare di chiedere l’embargo delle armi davanti a un governo israeliano che compiva una svolta genocida? Oppure astenersi dal dire che i palestinesi non sono un “popolo superfluo” come ha affermato Macron riconoscendo alle Nazioni Unite lo Stato di Palestina? O non provare a rappresentare il sentimento di una larga fascia di opinione pubblica, soprattutto giovanile, che chiede di mettere fine al doppio standard e di costruire un ordine mondiale più giusto? Quelle piazze erano stracolme di giovani che hanno ritrovato l’impegno civile dopo anni in cui gli era stato detto che il mondo andava bene così come era. Ignorarlo sarebbe davvero miope. Soprattutto ora che la tregua è appesa a un filo come era largamente prevedibile e il diritto del popolo palestinese ad autodeterminarsi appare tutt’altro che all’ordine del giorno.

Potrebbe declinare la sua idea di “riformismo”?
Non essendoci più in campo opzioni rivoluzionarie, tutti sono riformisti. E questo vale da almeno mezzo secolo. È un dibattito politologico che mi appassiona davvero poco. La distinzione tra riformisti e radicali mi riporta a una discussione che già nella vecchia quercia dopo lo scioglimento del PCI era largamente insufficiente per capire come si muoveva il mondo. Nel frattempo, tornavano le guerre a dettare l’orologio della storia, alcuni studiosi americani parlavano apertamente di conflitto di civiltà, movimenti altermondialisti ponevano il tema di un modello di sviluppo più equilibrato dentro l’impetuosa crescita della globalizzazione. Chi profetizzava la scomparsa di qualsiasi componente ideologica nelle democrazie mature è stato ampiamente smentito. Oggi bisogna fare i conti invece con una destra di nuovo conio. Che è turbo liberista e allo stesso tempo popolare. Che serve gli interessi di pochi, ma si intesta le paure dei molti. Che coniuga la vocazione messianica con l’ostentazione cinica del danaro. La destra ci insegna che non esiste buon programma se non è accompagnato anche da “un senso”. È purtroppo nel campo nostro che si fa fatica a livello mondiale a contrapporgli un movimento altrettanto capace di smuovere le coscienze di milioni di donne e uomini senza potere. D’altra parte, se rimuoviamo dalla nostra analisi persino l’esistenza del conflitto sociale, coltivando l’illusione che tutti gli interessi in campo siano uguali e che dunque debbano essere rappresentati alla stessa maniera, allora stiamo andando fuori strada. Non stiamo parlando di riformismo, ma di conservatorismo. Ovvero della conservazione degli attuali rapporti di forza sociali in campo dove la rendita continua a mangiarsi il lavoro, dove il capitale non ha nessuna forma di freno o di controllo, dove la crescita infinita può mangiarsi l’ecosistema, dove l’occupazione non cammina di pari passo con i diritti, dove i salari sono una variabile dipendente della buona volontà delle aziende, dove la verticalizzazione delle decisioni elude il tema di una partecipazione diffusa del processo di formazione della democrazia. E dunque produce una regressione autoritaria. Non mi convince, quindi, questa distinzione artefatta. Anche la sinistra più moderata sa bene chi rappresenta e contro chi combatte. Alla fine, se pensi di rappresentare tutti finisci spesso, anche involontariamente, con l’assumere soltanto il punto di vista del più forte e di non parlare più a nessuno.

Qual è il segno politico e sociale della manovra economica presentata dal Governo?
Stiamo ai dati dell’occupazione. Non è la Cgil, ma l’Inps a certificare che l’80 per cento dei nuovi contratti nel 2024 sono a termine. E che crescono gli assegni di disoccupazione (più 2,6%), le ore di cassa integrazione (più 19,6%) e il ricorso agli ammortizzatori sociali (più 15%). E le differenze salariali, già dentro il più basso tasso di occupazione femminile d’Europa, tra uomini e donne restano spaventose. Nonostante hai avuto 200 miliardi di Pnrr dall’Europa, la qualità del lavoro e dei salari è rimasta al palo. Se governi un grande paese, qualche domanda te la fai. Invece assistiamo a toni trionfalistici e a una manovra che non aggredisce nessuno di questi temi. Niente di efficace sui salari perché con la rimodulazione IRPEF siamo a tre euro al mese in più per chi guadagna 28000 euro lordi annui. Niente sugli investimenti aggiuntivi che praticamente sono a zero, tranne quelli sulle armi. Per non parlare della beffa delle pensioni: dovevano azzerare la Fornero, alzano l’età pensionabile di un mese dal 2026 e di altri due mesi nel 2027. Questa manovra descrive un fallimento del Governo: crescita piatta, nessuna redistribuzione fiscale, tagli al welfare. Un disastro sociale.

Unire la piazza con la battaglia parlamentare contro le diseguaglianze e i lavori poveri, è nell’agenda del Pd?
Saremo in campo con le nostre proposte che sicuramente incroceranno una mobilitazione di piazza. C’è una sofferenza sociale enorme che si rifugia nel non voto a cui va data una risposta unitaria. Mi auguro che dopo la tornata elettorale di novembre, dove sarà chiaro che il centrosinistra è assolutamente competitivo, si metta testa – come ha proposto Elly Schlein – al cantiere dell’alternativa. Il tempo è ora.

30 Ottobre 2025

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