A 50 anni dalla morte
Pier Paolo Pasolini, 50 anni fa la morte misteriosa del ‘corsaro’
Ppp era capace di spiegare i nodi della storia con grazia gentile, era in grado di raccontare ai ragazzi, perfino ai giovani “fascisti”, verso quale punto di non ritorno antropologico correva l’Italia già contadina
Cultura - di Fulvio Abbate
Di Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, cineasta, critico letterario, semiologo civile, intellettuale (anzi, “intelletuale”, così come scrisse un anonimo segretario di sezione friulana sulla sua tessera di militante comunista del 1947), polemista “corsaro” e “luterano”, dovremmo discutere, per rispetto alla morte, che agisce sui corpi, e altrettanto sul tempo storico – il suo, in questo caso – non meno trascorso, qui, a cinquant’anni dal massacro dell’Idroscalo di Ostia la notte del 2 novembre, esatto, dovremmo ragionare come se stessimo trattando di un “gettone telefonico”: forme, luoghi, oggetti, azioni, perfino politiche, desuete, impossibili da restituire nella loro esatta pienezza.
Ricordando altrettanto che le “belle bandiere”, che a PPP erano care insieme ai volti di Marx, Gramsci, Freud, hanno mutato lucentezza. Pasolini affermava il bisogno di coscienza in un Paese, l’Italia e il suo Appennino, che fino al momento aveva conosciuto, con D’Annunzio, soprattutto un canto, sì, civile, declamato tuttavia all’ombra del Vittoriano, con voce nazionalistica, propria della destra. Pasolini sollevava invece la bandiera, lo “straccetto rosso”, sempre parole sue, dei partigiani. Volendo essere cronologicamente più esatti, andrebbe aggiunto che Pasolini, oltre a scrivere versi e romanzi, realizzava film destinati a fare scandalo, compilando da un certo punto della sua storia non meno militante, in nome di una disperata vitalità articoli, fondi ed elzeviri di sostanza critica, politica, antropologica, nel senso più assoluto della parola, dove esprimere una propria elegia poetica; pronta, appunto, a farsi invettiva, denuncia, consegnando con parola e corpo alla lotta, per nulla temendo di contraddirsi.
Amava distinguersi da ogni altro scrittore, Pasolini, praticando il molteplice, e sempre con molto coraggio, con “disperata vitalità”, parole sue, ripeto. Da poeta, da intellettuale, da critico della società e dei costumi del Paese che lo aveva visto nascere, da persona che sogni un mondo liberato dai limiti dell’esistente, forse anche posseduto dall’incanto primario di un’arcadia medievale, così come i suoi tesori monumentali, più adatto perfino, sia detto con retorica, al canto popolare, a “fare all’amore”, a innalzare il piacere del sesso, ad affermare perfino la gioia omosessuale; così avanti lettera. Bisogna poi aggiungere, soprattutto per coloro che di lui tutto ignorano, o nel migliore dei casi sono appassionati unicamente al mistero sulla sua morte, del suo assassinio senza mai vera luce, che Pasolini era altrettanto capace di spiegare i nodi della storia con grazia gentile, in grado di raccontare ai ragazzi, perfino ai giovani “fascisti”, verso quale punto di non ritorno antropologico correva l’Italia già contadina.
Ora, volendo illustrare in quale momento della storia, geneticamente, biograficamente parlando, ha inizio il racconto politico ed espressivo che riguardi la sua persona, occorre aggiungere che Pasolini era nato a Bologna il 5 di marzo del 1922, oltre cento anni esatti fa. Il bambino, l’adolescente Pier Paolo, il ragazzo, l’uomo, il futuro letterato, quindi, per privilegio anagrafico ha attraversato la dittatura fascista, i giorni e gli affanni della guerra, lo spirito della Resistenza al nazi-fascismo, poi, davanti alle macerie perfino morali del dopoguerra, ormai quasi trentenne, da marxista, c’è subito modo di scorgerlo seduto dietro la sua piccola scrivania economica, in un povero e minuscolo appartamento romano, in via Fonteiana, poeticamente a ragionare sulla luce, le ombre, gli inganni, l’infranto della società. Tutto ciò avveniva nell’esatto istante stesso in cui il mondo abbandonava il paesaggio domestico delle piccine pentole d’alluminio per abbracciare un tempo d’acciaio inox.
Sono già gli anni Sessanta, quando i giovani scelsero di scendere nelle piazze della propria rivolta per finalmente esistere in quanto tali, inventando sé stessi come categoria perfino politica, accompagnati dai gruppi musicali che ne cantavano la ribellione, meglio, la “contestazione”, come si diceva allora. I giovani “contestano” i vecchi, i “matusa”, nasce perfino una rivista, un rotocalco con quel loro nome, Giovani, ogni settimana con un manifesto diverso, ora i Beatles ora i Rolling Stones, ora Don Backy o Celentano. Ma non vorrei semplificare e soprattutto correre troppo, resti l’immagine ormai desueta del gettone telefonico a restituire l’enigma dell’irriproducibilità del suo tempo storico. Come restituire adesso quel tempo che sembrava destinato a mostrarsi infinito? Nessuna Intelligenza artificiale potrà mai riuscire nell’impresa. Via Fonteiana, vista con gli occhi del presente, è una strada per ceti medi. Era invece il 1955 quando lo scrittore e sua madre Susanna Colussi, insegnante, presero a cercare un affitto, qualcosa di “decoroso”.
Lo trovarono appunto al civico 86, fra piazza Ottavilla e piazza Fonteiana, poco prima della discesa ulteriore di via Abate Ugone, la borgata di Donna Olimpia, dove, fra l’altro, ha luogo Ragazzi di vita. Un parallelepipedo intonacato d’ocra, senza particolari segni di estro architettonico, eppure dall’ingresso spazioso, luminoso, nel quale la famiglia Pasolini poté prendere subito posto. Un vecchio quaderno delle elementari rimasto in possesso della storica portinaia ormai scomparsa anche lei, mostrava i cognomi degli inquilini freschi allora di contratto: in corrispondenza del quarto piano, accanto al numero dell’interno 26, apparivano le generalità di “Pasolini Carlo Alberto”, il padre dello scrittore, maggiore di fanteria a riposo, “il Colonnello Attaccabottoni” lo chiamava lo scrittore Carlo Emilio Gadda, vicino di caseggiato.
Segno che fu l’uomo, dopo essersi ricongiunto con la famiglia fuggita nel 1950 dal Friuli per venire a Roma dopo uno scandalo dell’omosessualità del giovane Pier Paolo, a firmare l’atto, il contratto d’affitto. Appena due stanze, cucina, bagno e un balcone stretto che s’affaccia su via Innocenzo X, le mattonelle celesti adorate dai piastrellisti degli anni Cinquanta, gli infissi degli stessi tempi, un’aria immanente di “smorzo”, per intendere un deposito di materiali edilizi di risulta dove i poveri cercano cemento e laterizi modesti per risparmiare sui costi. Giù nell’atrio, i proprietari del palazzo, in occasione del trentesimo anniversario della scomparsa dello scrittore, nel novembre del 2005, hanno voluto fissare una targa di marmo; serve a ricordare che dal 1955 al 1959 Pier Paolo Pasolini ha abitato in quel palazzo, seguono i versi “Com’era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!” Già utilizzati per la targa apposta dal Comune di Roma in via Giacinto Carini, la seconda e più nota residenza monteverdina dello scrittore. Perfetti, certo, eppure, se solo i titolari del condominio fossero andati a cercare fra le Ceneri, scritte proprio in quel luogo o comunque lì ultimate, sarebbero saltate fuori altre parole, dove la strada trova sé stessa e il proprio magnificat: “Ed ecco la mia casa, nella luce marina/ di via Fonteiana in cuore alla mattina”.
In verità, come ricordava la portinaia allora ancora lì in servizio, “i Pasolini andarono via solo nel 1960”, e ancora racconta di quando rincasando alle 4 del mattino, privo di chiavi, si attaccava al suo citofono. “Signor Pasolini, la pregherei di non suonare più in piena notte, così facendo mi sveglia il bambino, grazie”. La supplica, dopo numerose effrazioni al rispetto del sonno della famiglia dei custodi, verrà infine esaudita. Un paesaggio quotidiano e insieme proprio dell’epica edilizia degli anni Cinquanta, un luogo che mostra i segni di un destino poetico, impossibile oggi di restituirne l’essenza, le ombre di un cosmo condominiale che ancora adesso suggerisce l’emozione dell’infanzia di un paese diviso fra memoria “civile” e indifferenza condominiale.
C’è un bar, in via Giacinto Carini, lo stesso che lo scrittore così scopriva nel 1960: “Col sole, sedute ai tavolinetti di metallo di un baretto – senza consumare niente – ci sono sei o sette ragazze: loro e il sole. Il baretto è all’angolo tra Via Fratelli Bonnet e Via Carini, accanto alla fermata dell’autobus: quindi qualcuno passa, e le vede…”. Ancora adesso, nella tarda mattinata, il sole si imbatte nell’esistenza di quel bar. Di Pasolini resta solo l’assenza, ogni parola che voglia restituirne la semplice ombra è ormai arbitraria, così come sollevare la bandiera che gli era cara, così come ritrovare tra vecchie lire un gettone telefonico. Forse è il caso di lasciare Pasolini alla sua ombra, alle sue ceneri.