Il cinquantenario dalla morte
Quattro motivi per cui abbiamo ancora bisogno di Pasolini: altro che icona pop, era scomodo e sovversivo
Jazzista della parola, dall’ingegno multiforme, lo scrittore è stato in questi anni normalizzato. Ma io, che l’ ho conosciuto, vi dico che è un abbaglio: non rassicurava mai, anzi decostruiva tutto
Cultura - di Filippo La Porta
In prossimità del cinquantenario della morte di Pasolini si moltiplicano eventi, convegni, iniziative, libri, articoli … Segnaliamo almeno Il festival delle passeggiate, che a novembre si sposta ad Ostia e un convegno alla Facoltà di architettura il 28 ottobre. La cospicua bibliografia sullo scrittore friulano rischia un po’ di sfinimento, ma tra i contributi recenti più originali vorrei citare solo In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia di Paolo Desogus (La nave di Teseo). Dove l’ “umano” si definisce in quanto incompleto (ne parlo tra poco), dunque contraddittorio, non risolto in alcuna sintesi dialettica, né riassorbibile interamente da parte della ragione: difendere l’umano è difendere la vita stessa, l’alterità del corpo, il desiderio. La stessa produzione artistica di Pasolini, variegata e incontenibile – romanzi, poesie, saggi, interventi, film, lavori teatrali, canzoni…. – si presta a un’infinità di letture. Vorrei però tentare di dire, nel modo più sintetico – in quattro punti! – , le ragioni della sua grandezza, e anche perché abbiamo bisogno di tornare a lui, di leggerlo e rileggerlo, di vedere e rivedere i suoi film.
1. Pasolini “jazzista” involontario
L’opera di Pier Paolo Pasolini si configura come una costellazione di “assaggi”, frammenti, abbozzi, appunti, promesse: un laboratorio permanente, una tensione continua verso forme espressive mai pienamente concluse, mai fissate una volta per tutte. Questa natura aperta e plurale del suo pensiero e della sua produzione – letteraria, cinematografica, teorica – trova un sorprendente corrispettivo nella pratica jazzistica: arte dell’improvvisazione, del rischio, della variazione continua sul tema. Ci appare insomma come una grande improvvisazione jazzistica. Probabilmente il “capolavoro” non lo troverete. Ma che importa. La grandezza di Pasolini sta lì, dispersa in quel pulviscolo di tentativi, frammenti, tracce, testimonianze. Anche nella poesia più volontaristica, in mezzo a qualche endecasillabo zoppicante – si sa, era un po’ megalomane e voleva imitare Dante! – troviamo sempre la pepita di un verso memorabile: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto”.
Diffidava di tutto ciò che è compiuto, rifinito. Come scrive: “Mi attrae nel sottoproletariato la sua faccia, che è pulita (mentre quella del borghese è sporca); / perché è innocente (mentre quella del borghese è colpevole), perché è pura (mentre quella del borghese è volgare), / perché è religiosa (mentre quella del borghese è ipocrita), /perché è pazza (mentre quella del borghese è prudente), /perché è sensuale (mentre quella del borghese è fredda), perché è infantile (mentre quella del borghese è adulta), /perché è immediata (mentre quella del borghese è previdente), /perché è gentile (mentre quella del borghese è insolente), /perché è indifesa (mentre quella del borghese è dignitosa), /perché è incompleta (mentre quella del borghese è rifinita)”.
2. Pasolini come “tafano”(sempre disturbante)
Riguardo al Pasolini corsaro o eretico o luterano. Oggi è diventato un santino, reso inoffensivo, e di cui tutti si appropriano, una icona pop multiuso, totalmente depotenziato. Vorrei stabilire una regola: bisognerebbe citarlo solo per darsi torto! Non per sostenere e rafforzare una propria posizione. Pasolini era sempre disturbante, soprattutto per la propria parte. Io lo amavo, e lo seguivo ovunque parlasse a Roma, nelle sezioni del Pci, nelle facoltà occupate, nei cinema di periferia, etc. proprio perché ogni volta mi provocava e mi faceva incazzare. Era al tempo stesso scandaloso e fraterno, amorevole ma pungente. Un “tafano”, come diceva di se stesso Socrate. Ad esempio: mi dichiaro un sincero pacifista? Probabilmente Pasolini mi avrebbe obiettato che in realtà io voglio soprattutto consumare in pace. E soprattutto: va bene, ma devo sapere che il mio livello di consumi, fondato su squilibri planetari e sul saccheggio delle risorse, richiede la guerra, la necessita. Dunque per essere coerentemente un pacifista devo trasformare il mio stile di vita. Questo avrebbe commentato il Pasolini corsaro, per quanto sia arbitraria ogni nostra proiezione al riguardo.
3. Confronto della cultura laica con il sacro
Il sacro non è per Pasolini qualcosa di soprannaturale ma la realtà stessa, sia pure vista da una certa prospettiva. Rimanda dunque a una relazione con la realtà, con quanto in essa vi è di gratuito, incalcolabile, libero, irriducibile alla razionalità e all’agire. Un’attitudine che a sua volta nasce dalla percezione che abbiamo della vita stessa come un dono, come donazione misteriosa ed eccessiva. Tutto ciò che è bello e amabile nelle nostre esistenze deriva in fondo da quella percezione, e dagli atti che segretamente ispira. Quella percezione è potenzialmente alla portata di tutti. Sappiamo l’uso che storicamente il potere (politico, religioso) ha fatto del sacro, tentando di amministrarlo e monopolizzarlo, ma qui si parla invece di un senso della sacralità della vita che è stato obliterato dalle istituzioni ecclesiastiche e che rivive soprattutto nella carità. E proprio sulla carità paolina Pasolini intendeva creare uno scisma nella chiesa cattolica (ve l’ho detto che era un po’ megalomane)! In Petrolio, nella scena del Pratone della Casilina, quando Carlo ha un rapporto orale con i ragazzi di vita, e viene colpito dal pene bagnato di saliva e sperma, si ritrova unto, cioè sacro, e in quel momento si sente sprofondare in un’intimità con la natura e in un tempo mistico, un tempo senza tempo. Credo che la cultura laica, cui appartengo, abbia bisogno di un’apertura verso questa dimensione del sacro, verso tutto quello che Pasolini chiamava il “poco-razionale”.
4. L’eredità di Pasolini
Dove ritroviamo oggi la sua eredità? Forse fuori dalla letteratura: nel cinema, nella canzone, nel fumetto, e poi nell’immaginario collettivo, dove Pasolini stesso – il suo personaggio più riuscito! – sprigiona un magnetismo inesauribile (si pensi alla street art, alle icone dello scrittore sui muri delle città). Il film Favolacce (2020) dei fratelli D’Innocenzo (vincitore al Festival di Berlino del premio per la sceneggiatura) ad esempio, era una dimostrazione quasi “matematica” del teorema pasoliniano sul genocidio culturale: quella umanità ottusa e feroce della periferia residenziale può immaginare solo oggetti di consumo – auto, piscine gonfiabili, polo firmate – e non ha più nulla da insegnare o trasmettere ai figli. Ma anche il recente Un film fatto per Bene di Franco Maresco, genialmente incompiuto e franante, un “filmicidio”. Niente di più pasoliniano!