I giovani comunisti e il poeta
Chi era Pier Paolo Pasolini e perché votava Pci: storia di una amicizia tra il poeta e la Fgci
Cos’era la Fgci? L’organizzazione di noi giovani comunisti. E nel 1974 ci incontrammo con Pierpaolo Pasolini. Fu Gianni Borgna, che era il nostro capo, a decidere che ci interessava. Quel che è clamoroso è che noi interessavamo a lui. Così nacque una breve storia straordinaria
Editoriali - di Goffredo Bettini
Il rapporto di Pasolini con il Pci fu complesso, altalenante, dissonante. Ma continuo. Sentimentalmente profondo. Con alcuni dirigenti, tra i quali Antonello Trombadori, di vera amicizia e solidarietà. Pasolini era un marxista, aperto a molteplici rapporti e influenze. In ordine sparso: da Godard a Pound, da Brecht a Chaplin, da Deleuze a Guttuso, da Gramsci a Freud e poi i suoi costanti riferimenti Dante e Marx. Su questo si è scritto tanto.
Voglio raccontare, invece, dell’amicizia che legò il grande poeta, negli ultimi due anni della sua vita, con la Fgci. I giovani comunisti. O meglio, i giovani comunisti romani: un gruppo assortito e curioso. Creativo e intelligente. Capeggiato dall’indimenticabile Gianni Borgna, spedito da Luigi Petroselli nel 1973 a risollevare le sorti della federazione giovanile della capitale. Gianni, allora, era già un giovane uomo. Colto e raffinato. Con un profilo eccentrico, talvolta surreale. Lo scoprii così da subito. La prima volta che lo incontrai, nella lontanissima sezione di Monte Mario di cui era il segretario, mi apparve in piedi su una sedia con un colbacco di visone, mentre svolgeva una lunga relazione (che partiva come di consueto dalla situazione internazionale) a un folto gruppo di disagiati psichici vicino al più grande ospedale psichiatrico di Roma.
Allora avevo un pastore tedesco di nome “Gigi” che mi portavo sempre appresso. Entrando nel locale del Pci, essendo un animale sensibile, si accorse che c’era qualcosa di strano nell’atmosfera. Cominciò ad abbaiare, suscitando un gran subbuglio. A quel punto uno dei presenti lasciò l’assemblea e, guardandomi negli occhi, mi disse un po’ seccato: “Io me ne ritorno al Santa Maria della Pietà perché qui mi sembrano tutti matti”. Da allora questa cifra ad un tempo stravagante e creativa segnò il mio rapporto con Gianni. Che divenne l’amico di una vita. E che ancora mi manca tantissimo. Del giovane gruppo dirigente facevano parte, tra gli altri: Carlo Leoni, Nando Adornato, Walter Veltroni, Giulia Rodano, Franca Chiaromonte, Antonio Semerari, Alessandro Castiglia, Luciano Consoli.
A quell’epoca solo Gianni aveva già grandemente letto e studiato Pasolini. Lo adorava. Lo considerava, al contrario di molti, uno sperimentatore del linguaggio ed un innovatore del pensiero. Era, per lui, nel Pantheon dei grandi: insieme ad Hitchcock, per il cinema; a Carmelo Bene, per il teatro; a Leopardi, per la poesia. Anche io, conoscevo molte cose del poeta. Ma molte di meno del mio caro amico. Nel cinema, arte a me molto cara, ero rimasto colpito da “Accattone” e “Mamma Roma” e dai primi due film della trilogia della vita (“Decameron” e “Il fiore delle mille e una notte”). Mi erano piaciute le poesie in lingua friulana. E poi “Le ceneri di Gramsci”. Così come rimasi influenzato dai suoi articoli sui vari quotidiani e riviste (soprattutto quelli sul “Corriere della Sera”). Poi raccolti negli “Scritti corsari” e nelle “Lettere luterane”. Ma, ripeto, Gianni era l’esperto.
Nel 1974, decise di organizzare, con il suo nuovo gruppo dirigente, la nostra prima “Festa della gioventù”. Scegliemmo per svolgerla “La valletta dei cani” di Villa Borghese. Doveva essere un evento molto di “sinistra”. Grande ruolo ebbero i cantautori del canzoniere italiano. Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli e Ivan Della Mea. Tuttavia, pensammo anche di scrivere e rappresentare uno spettacolo da noi inventato: “Aspettando la meraviglia”. Di cui parlò un gran bene il quotidiano “Il Manifesto”, allora critico con i comunisti italiani. Il momento più intenso della rappresentazione era quando un gruppo di ragazze e ragazzi irrompevano sul palcoscenico, all’improvviso, uscendo da un’installazione (totalmente avvolta in grandi teli bianchi ben tirati), dopo averla lacerata da dentro con dei grandi coltelli affilati. Per noi, voleva significare l’irrompere del ’68. Che tutto cambiò.
L’effetto fu forte. Forse troppo. Perché risultò poco rassicurante per i funzionari della federazione che erano venuti a curiosare. La messa in scena li lasciò altamente perplessi. E da quel momento, pur rimanendo liberi, nella federazione del Pci fummo considerati degli “osservati speciali”. Gianni da tempo insisteva nell’avere, a tutti i costi, Pasolini protagonista della festa: per spiegare le sue ragioni e la sua analisi cruda, e persino disperata, sullo sviluppo italiano e i caratteri antropologici della società di quel momento. Quando Gianni si metteva in testa qualcosa di particolarmente complicato, la vittima sacrificale della “missione impossibile” era quasi sempre il sottoscritto.
Mi misi alla ricerca del poeta. Non avevo il suo numero di telefono. Tramite Bruno Grieco, allora il responsabile della sezione spettacoli di Botteghe Oscure, un uomo stimato e gentile, riuscii ad ottenerlo rapidamente. E così la mia amicizia con Pasolini, iniziò da una telefonata. Nessuno mi presentò prima e naturalmente ero del tutto sconosciuto al mio interlocutore. Mi feci coraggio: “Pronto?”. La voce che mi rispose era educata, calma, disponibile e incuriosita. Gli spiegai in poche parole il desiderio di invitarlo ad un nostro incontro. Voleva capire meglio e mi disse di parlarne a casa sua. Lo andai a trovare il prima possibile. Non ci furono particolari convenevoli e tanto meno slanci di entusiasmo. Ma alla fine Pasolini disse di sì. Mi aveva fatto l’impressione di una personalità magnetica. Semplice e allo stesso tempo profonda. Il mio animo era alle stelle, dopo aver lasciato la sua casa; che ricordo lineare, ordinata ed essenziale, abbastanza in sintonia con le linee architettoniche dell’Eur.
Sentimmo una responsabilità grande nel preparare l’incontro pubblico. Anche Borgna, felicissimo, si accorse della delicatezza politica e organizzativa dell’iniziativa che tanto avevamo sognato. Accanto a Pasolini dovevamo invitare un rappresentante della cultura del partito. Che fosse ad un tempo stesso capace di reggere il livello del discorso, di rappresentare le idee ufficiali del gruppo dirigente comunista, di svolgere un dialogo civile. La scelta cadde sul professor Gabriele Giannantoni. Insigne accademico e impegnato anche direttamente nel lavoro del partito di Roma. Notai subito tra i nostri militanti una divaricazione, sotterranea ma evidente. Alcuni erano conquistati dal fascino dei pensieri del grande poeta. Altri parteggiavano per Giannantoni. Vale a dire per le tesi del Pci. La questione più spinosa riguardava il giudizio netto che Pasolini aveva espresso sulla nostra generazione. Guerra civile tra borghesi.
Perdita della ingenuità, naturalezza e grazia dei ragazzi degli anni ’40, ’50 e ’60. Lo sfascio delle forme interiori e persino corporee, dei figli del consumismo e del benessere. Incattiviti. Potenzialmente violenti. Per certi aspetti indifferenziati, tra quelli di destra e quelli di sinistra. Noi, giovani comunisti, dove eravamo collocati dentro questo generale rammarico e senso di perdita? Al tempo del primo dibattito con Pasolini, non l’avevamo ancora capito bene. Ci vollero alcuni mesi. Via via cogliemmo meglio il giudizio che il nostro nuovo amico aveva su di noi.
Alla festa di Villa Borghese, il confronto fu partecipatissimo. Il giovane pubblico si era messo a sedere per terra in cerchio intorno al piccolo palco. Gli oratori si confrontarono sotto un grande albero, in modo rispettoso, serio; ma anche tagliente. Pasolini era rimasto contento. In seguito, per un po’, tra di noi ci fu silenzio. Comunque, Gianni ed io non mollammo la presa e lui non la fuggì. Lo andai, poi, a trovare altre volte. Parlando soprattutto di cinema, l’argomento dove mi sentivo più forte e preparato. È la forma d’arte che ho sempre amato di più. Rossellini sopra ogni altro. Talvolta toccammo, in modo circospetto e delicato da parte mia, l’argomento circa il Pci e l’omosessualità.
Un misto di moralismo, reticenza e disciplina. Forse anche l’idea di non prestare il fianco alle polemiche bigotte dei nostri avversari. Consideravo tutto ciò inconcepibile. Ho vivo in mente il ricordo di una sera a cena alla “Carbonara” a Campo de’ Fiori, quando Paolo Bufalini, al quale ero affettuosamente legato, mi raccontò le vicende di un brillante giovane dirigente sardo, Renzo Laconi, che aveva sofferto per dei sospetti nei suoi confronti. Laconi era in ascesa perché particolarmente intelligente e preparato. Tra i 75 “redattori” della Costituzione italiana. Apprezzato da Togliatti. Oratore acuto e travolgente. Insieme ad Ingrao, forse il migliore del gruppo dirigente del Dopoguerra. Eppure, pesò nella sua carriera proprio il dubbio circa la sua omosessualità. Peraltro, solo supposta in quanto non aveva famiglia e viveva ancora con la madre.
Il dialogo con Pasolini, dunque, andò avanti. Si approfondì persino. C’è una bella fotografia che ritrae il poeta nella sua abitazione con attorno un gruppo ampio di ragazze e ragazzi comunisti, mentre concede un’intervista, il 15 novembre del 1974, a “Roma giovani”, la nostra rivista diretta in modo “spericolato” da Nando Adornato. Si vedono, con volti attenti e con una viva partecipazione, Lucio Caracciolo, Massimo De Angelis, Alessandro Castiglia, Fabrizio Barca e tanti altri. Senza quasi accorgercene, nel ragionare sulla fase politica e gli orientamenti dell’Italia, per il poeta la nostra presenza diventò gradualmente un elemento importante, forse decisivo. Quello che continuava a colpirmi era il suo pessimismo e il suo tragico “lutto” rispetto ad un passato preindustriale e contadino, in totale controtendenza, in quel momento, con l’espansione elettorale e di egemonia del Partito comunista italiano.
Sentivamo che tutto ciò andava spiegato. Approfondito. Una sera, lasciando casa di Pietro Ingrao, il dirigente che ho amato di più della sinistra italiana, gli chiesi un giudizio su Pasolini. Mi rispose: “Un grande intellettuale, un artista importante”. Ma poi, dopo una pausa, aggiunse: “Goffredo, però è troppo pessimista. Sì, troppo pessimista”. Anche Pietro, l’uomo del dubbio, della ricerca aperta e non ortodossa, curioso della dimensione così impalpabile dello spirito e dell’umano, avvertiva un accento eccessivo di sconfitta e negatività.
Ma di molte cose venimmo a capo quando Pasolini, in privato e poi in pubblico, cominciò a definire il vero contorno del rapporto che ci legava. Non so che avesse trovato davvero di particolare in noi. Forse lo aveva colpito il nostro entusiasmo ingenuo e pulito. La semplicità dei nostri comportamenti e del modo di vestire, del tutto estranei alla moda; oppure la nettezza dei nostri convincimenti di fondo e la radicalità della nostra lotta alla Democrazia cristiana, che era diversa da quella del partito dei “grandi”. Fatto sta, che riferendosi alla marmellata generale di una umanità trasformata dalla mercificazione e dal consumismo, cominciò a pensare ci fosse un’isola nel mare del nonsenso. Quest’isola erano i comunisti.
Anzi, più precisamente, i giovani comunisti. Esternò apertamente e nel modo più sublime questi suoi convincimenti nel giugno del 1975. Quando declamò, perché di una poesia si trattava, la sua dichiarazione di voto al Partito comunista per le allora prossime elezioni regionali. L’occasione ancora una volta fu pensata e realizzata da noi. Prima di questo ulteriore evento, che sapevamo importante, volemmo rassicurarci che il partito l’avrebbe accolto bene e che soprattutto fosse favorevole al rafforzamento del rapporto con il poeta. Borgna ed io chiedemmo un incontro con Giorgio Napolitano, allora responsabile nazionale della cultura del Pci. Egli ci ascoltò con attenzione. Alla fine, con la sua consueta pacatezza, ci disse: “Andate avanti. Andate tranquillamente avanti. Noi ci siamo. Ricordate, Pasolini è una personalità nella storia italiana”.
Ci mettemmo alacremente ad organizzare la manifestazione, nella quale Pasolini avrebbe svolto il suo discorso. Scegliemmo il cinema Jolly, come il luogo più adatto. Allora grande, perché ancora non trasformato in una multisala; tra periferia e centro. Guido Ingrao, il figlio di Pietro, dirigente della Fgci, si caricò il compito di organizzare la partecipazione. In una domenica mattina, in una sala piena, Pasolini pronunciò il suo discorso: una denuncia; una resistenza per combattere; la previsione di una sconfitta di civiltà; una speranza; un atto d’amore: “Voto comunista perché ricordo la primavera del 1945, e poi anche quella del 1946 e del 1947. Voto comunista perché ricordo la primavera del 1965, e anche quella del 1966 e del 1967. Voto comunista , perché nel momento del voto, come in quello della lotta, non voglio ricordare altro […]. Ricordo e so che nel ’45, ’46, ’47 si poteva vivere la Resistenza. Ricordo e so che nel ’65, ‘66, ’67, quando era ormai ben chiaro che avevamo vissuto la Resistenza ma non la liberazione, si poteva vivere una lotta reale per la pace, per il progresso, per la tolleranza: una Nuova Sinistra in cui confluiva il meglio di tutto. Ricordo e so che, anche quando questa illusione necessaria è andata perduta, siete restati solo voi giovani comunisti”.
E poi, ecco le parole conclusive del poeta: “Ma infine so che in questo paese non nero ma solo orribilmente sporco c’è un altro paese: il paese rosso dei comunisti. In esso è ignorata la corruzione, la volontà d’ignoranza, il servilismo. È un’isola dove le coscienze si sono disperatamente difese e dove quindi il comportamento umano è riuscito ancora a conservare l’antica dignità. La lotta di classe non sembra più contrapporre rivoluzionari e reazionari, ma ormai, quasi uomini appartenenti a razze diverse. Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita: riescano cioè a trasformare, come vuole la loro tradizione razionale e scientifica, lo Sviluppo in Progresso”.
Fine prima puntata (Continua)