Il rapporto del Tavolo Asilo
Meloni disposta a tutto per non chiudere i Cpr in Albania
Niente liste di detenuti, mistero sulle nazionalità, silenzio sui trasferimenti. Balle e dati manipolati da parte del governo Meloni che ha un obiettivo imprescindibile: non chiuderlo
Politica - di Gianfranco Schiavone
Il 29 luglio 25 è stato pubblicato (ed è scaricabile liberamente online su diversi siti, tra cui quello di Asgi) il rapporto “Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania” che si concentra sull’utilizzo del centro di Gjadër con funzioni di Cpr. Il rapporto, molto accurato sia nella descrizione dei fatti che nell’analisi giuridica, è frutto di un lungo lavoro condotto dal Tavolo Asilo e Immigrazione (Tai insieme a diversi parlamentari ed europarlamentari e rappresenta a mio avviso un modello di dialogo e collaborazione, che andrebbe replicato, tra la società civile e chi ha una carica elettiva.
Tra aprile e luglio 2025 sono state effettuate sei visite di monitoraggio nel Cpr di Gjadër in Albania, alcune della durata di più giorni che hanno permesso di svolgere colloqui con circa trenta persone trattenute e interloquire in maniera diretta o indiretta con circa sessanta persone trattenute. I dati raccolti sono stati completati da un lavoro di accesso agli atti amministrativi e da un esame della normativa e della giurisprudenza italiana ed europea. Il quadro che emerge dal Rapporto è sconcertante innanzitutto in ragione degli enormi ostacoli che sono stati posti alla conoscenza dei fatti. Nel Rapporto si legge come “Le missioni parlamentari nella struttura di Gjader, in Albania, hanno ricevuto molteplici rifiuti nell’accesso alle informazioni: niente liste dei trattenuti, nessuna indicazione sulle nazionalità, silenzio sulle modalità dei trasferimenti. Il ruolo ispettivo dei rappresentanti parlamentari è così compromesso a monte. Le difficoltà di accesso e l’opacità colpisce, in maniera ancora più accentuata, movimenti, ong e giornalisti d’inchiesta. D’altra parte, la manipolazione selettiva dei dati da parte del governo costruisce un racconto di piena funzionalità che non ha nessuna attinenza con la realtà.”
Nonostante dovrebbe essere una struttura a carattere non punitivo nella quale la limitazione della libertà personale viene attuata al solo scopo di eseguire l’espulsione, il centro di Gjadër presenta le caratteristiche di un carcere essendo “composto da 9 sezioni da 16 persone: 4 celle da 4 persone, con due letti a castello e un tavolino al centro, con un “cortile” in comune per ogni blocco; il cortile è completamente circondato da rete metallica, anche verso il cielo. Le porte delle celle si aprono solo dall’esterno con un codice, e il cibo viene somministrato attraverso una feritoia nella porta”. Il Rapporto evidenzia che tutti i trasferimenti verso il centro di Gjadër avvengono senza alcun provvedimento motivato e notificato alla persona e al suo difensore, nonostante sia evidente che il trasferimento in un centro ubicato in un paese estero, altresì non appartenente all’Ue, comporta una limitazione della libertà personale. La mancanza di un motivato provvedimento adottato dall’autorità giudiziaria viola l’articolo 13 della Costituzione e impedisce persino di impugnare l’atto stesso, che appunto non c’è, in violazione dunque del principio costituzionale di cui all’art. 113 Cost. che prevede il diritto di chiunque alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi contro gli atti della Pubblica Amministrazione, oltre che in violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. nonchè dell’art. 6 Cedu sul diritto ad un ricorso effettivo.
Gli stranieri trattenuti a Gjadër, vengono dunque di fatto trattati come una sorta di oggetti da spostare a piacimento del potere esecutivo. Il disprezzo verso i diritti delle persone si riscontra anche nelle modalità stesse del trasferimento; il Rapporto evidenzia come è stato infatti possibile accertare che “in tutti i casi verificati dal Tai ai trasferiti sono stati applicati mezzi di coercizione personale per l’intera durata delle operazioni di trasferimento, a partire dall’uscita dal Cpr di provenienza fino all’arrivo in Albania, per un arco temporale complessivo superiore alle 24 ore, senza alcuna valutazione individualizzata in merito alla necessità, ragionevolezza e proporzionalità dell’adozione di tali misure coercitive, che appaiono manifestamente sproporzionate rispetto sia al comportamento tenuto dagli interessati, sia al livello di rischio oggettivamente presente, soprattutto tenuto conto del consistente dispositivo di scorta predisposto per l’operazione”. Va ricordato che secondo consolidata giurisprudenza della Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) “Nei confronti di una persona privata della libertà, il ricorso alla forza fisica che non sia stato reso strettamente necessaria dalla sua stessa condotta sminuisce la dignità umana e costituisce, in linea di principio, una violazione del diritto sancito dall’articolo 3 della Cedu” (sent. Berlinski c. Polonia, 20 giugno 2002).
Le visite alla struttura hanno anche evidenziato l’esistenza di seri problemi relativi alla gestione delle problematiche sanitarie; già a fine aprile, poco tempo dopo la sua attivazione, si verificavano nel centro ”21 episodi di autolesionismo o di intenti suicidari da parte di almeno nove persone trattenute, evidenziando forti criticità sanitarie sullo stato psicofisico delle persone all’interno del centro” e che, al 16 maggio 25, “dopo poco più di un mese dal primo trasferimento forzato di persone trattenute dall’Italia al Cpr di Gjadër avvenuto il 11 aprile 2025 e con una presenza complessiva stimata di 40/60 persone, il Registro Eventi Critici riportava 42 casi”. Il rapporto sottolinea come “il trattenimento di cittadini stranieri nella struttura di Gjader mina l’effettività dei rimedi giurisdizionali in violazione degli articoli 24 e 3 della Costituzione”. E’ infatti in primo primo luogo la extraterritorialità del centro ad impedire l’accesso effettivo alla difesa tutelato dai già richiamati art. 24 Cost. e art. 6 della Cedu in ragione della oggettiva distanza tra i trattenuti e un difensore in Italia; nominarne uno, senza poterlo di fatto mai incontrare e senza riuscire a comunicare a causa della barriera linguistica, diviene per chi è internato a Gjadër un’impresa quasi impossibile e che configura una discriminazione tra trattenuti in un Cpr sito in Italia e il centro in Albania, basata sulla condizione personale, vietata dall’art. 3 della Costituzione, che impedisce che “senza un ragionevole motivo” si attuino trattamenti diversi tra “eguali situazioni” (Corte Cost. sent. n. 15/1960).
Come avevo già richiamato su queste pagine il 25.06.25 (Cpr in Albania, la Cassazione dice no) la Corte di Cassazione Penale, Sez. I, con ordinanza del 20 giugno 2025 n. 23105 si è interrogata sulla legittimità, alla luce del diritto europeo, della asserita equiparazione della struttura di Gjader con i CPR e gli hotspot che si trovano sul territorio nazionale e dunque sulla legittimità della previsione, di cui al Protocollo italo-albanese, di applicare, “in quanto compatibili”, le normative sull’allontanamento degli stranieri previste dalla Direttiva 115/2008/CE sui rimpatri. Secondo la Cassazione la nuova disciplina italiana che prevede il trattenimento in Albania si pone in netto contrasto con l’intero impianto della Direttiva rimpatri ed in particolare con gli articoli 3, 6, 8, 15 e 16 (di fatto tutti gli articoli fondamentali della norma europea); a norma dell’art. 267 Tfue (Trattato sul funzionamento dell’UE) la Cassazione ha dunque effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
La rilevanza delle questioni di diritto poste dall’Ordinanza di rinvio della Cassazione sono al centro delle conclusioni del Rapporto che osserva come “Il fatto che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea abbia come oggetto proprio la valutazione sulla legittimità della scelta di istituire in un Paese extra-UE una struttura di detenzione amministrativa per l’esecuzione dell’espulsione avrebbe dovuto avere come immediata conseguenza la cessazione delle operazioni di trasferimento e detenzione nel centro di Gjader da parte del Governo italiano fino a decisione della Corte di Giustizia Ue. Ciò però non è successo affatto.” Il Governo italiano mantiene aperta la struttura di Gjader proprio perché sa che gli internati sono isolati e i loro diritti quasi-annullati. Ognuno di loro, dallo sperduto luogo in cui si trova dovrebbe attivare una causa individuale per far riconoscere la illegittimità del suo trattenimento in pendenza del ricorso alla Cgue. Azione tanto giuridicamente fondata, quanto difficilissima sul piano pratico. Per alcuni che riusciranno a farlo, altri verranno portati a rimpiazzo, così da riuscire a non chiudere il centro.
Alla luce di tanta spregiudicatezza non appaiono affatto retoriche o eccessive le valutazioni del Rapporto quando osserva che “La gestione centralizzata, l’evocazione costante dell’emergenza, l’erosione delle garanzie e la deresponsabilizzazione delle autorità competenti sono segni di una trasformazione profonda del rapporto tra Stato e cittadinanza. Per questo possiamo dire che il “modello Albania” è un laboratorio dell’autoritarismo, dove si testano forme di potere post-democratico”.