L'analisi
Perdonare non è misericordia, è un atto rigenerante
Dalla tradizione ebraica a Julia Kristeva, passando per Dostoevskji e Hannah Arendt: in tanti hanno sottolineato che perdonare non è semplice misericordia, ma è un atto rigenerante
Cultura - di Filippo La Porta
Vorrei produrre argomenti in favore del perdono, diciamo nello stile di un filosofo analitico. Anzitutto: credo che il perdono – spinozianamente – “conviene”. E conviene per il semplice motivo che permette una rinascita, un ricominciamento, impedisce al futuro di essere una mera ripetizione del passato, introduce comunque un taglio, e dunque una speranza o promessa. Solo così l’avvenire non sarà ipotecato dal male (subìto e commesso). In fondo tutto il messaggio biblico consiste in questo (meraviglioso) invito a rifare daccapo. Qualcuno (Recalcati) associa il perdono financo alla resurrezione cristiana: bene se sottolinea la possibilità di rinascita, ma l’uso disinvolto, per quanto suggestivo, di categorie teologiche genera confusione.
Personalmente sono convinto – lo dico en passant – che la memoria di questa esperienza ebraica del perdono (una memoria assente in altre tradizioni religiose) sia ancora presente nel popolo di Israele, benché oggi sommersa e probabilmente minoritaria. Inoltre: non distinguo qui tra perdono amoroso e perdono nella sfera pubblica (tema delicatissimo: Primo Levi riteneva di voler comprendere i tedeschi sotto il nazismo ma resisteva a perdonarli), perché ci porterebbe troppo lontano.
Proverò a seguire il ragionamento di un bellissimo intervento di Julia Kristeva, sull’ultimo numero di Vita e pensiero, la rivista dell’Università cattolica di Milano (già lo ha affrontato in un saggio di qualche anno fa per la EDB). Il concetto di perdono si forma nella tradizione ebraica (potrebbe essergli accostato solo il principio romano di risparmiare le vittime), benché continuamente sottoposto a glosse e commenti (nella Mishnà): io domando il perdono a colui che ho danneggiato, lui deve accettare la richiesta, allora Dio potrà perdonarmi. Il perdono, secondo la lettura di Kristeva, non cancella l’orrore, né lo giudica, ma è un “atto di donazione” (san Tommaso) che trionfa sul giudizio stesso. Sospende provvisoriamente il tempo dell’io, che è un tempo dell’odio, e si riferisce invece nella tradizione biblica alla misericordia di Dio.
Traducendo in termini laici: certo, ci sono colpe imperdonabili (le azioni radicalmente malvagie, il “male radicale” di Kant), però gli uomini possono decidere tra di loro, consapevoli della propria fragilità, di svincolarsi dai fatti e dalle azioni passate, appunto perdonandosi. Qui torno alla razionalità del perdono, che non coincide con l’oblio (casomai il perdono produce l’oblio) ma impedisce al passato di esercitare un dominio dispotico sull’avvenire: il perdono libera il passato! Kristeva cita Delitto e castigo di Dostoevskij. Potremmo concludere – non è esattamente la conclusione di Kristeva – che qui il perdono precede il pentimento. Solo quando Raskolnikov viene perdonato da Sonja, prostituta e figura angelica che lo segue fino alla colonia penale in Siberia, si riconcilia con se stesso e soltanto a quel punto si pente. Freud – ricordiamo che Kristeva è una psicanalista – intendeva disinnescare l’odio attraverso l’analisi, dunque attraverso l’interpretazione delle sue diverse varianti, etc. permettendo così al soggetto – incapace di distinguere tra bene e male – una vera rinascita psichica. Alla fine Kristeva si interroga però sulla secolarizzazione della cultura moderna, sul fatto che il perdono era giustificato in un ambito religioso, dunque credendo in Dio, e nei dogmi della fede. Ma oggi? Che fare?
Una risposta potrebbe trovarsi nello stesso Dostoevskij, in un altro romanzo, I demoni. Qui il protagonista, Stavrogin, capo carismatico di un gruppo di cospiratori, ambiguo e affascinante, capostipite di una galleria di nichilisti che ha attraversato la nostra letteratura, decide di mettere bene e male sullo stesso piano. Rifiuta l’amore e il perdono. Ora questo indifferentismo morale – superomistico e sprezzante – non porta a un’esistenza più libera o più ricca. Anzi, lo svuota totalmente e fa di lui una persona “tiepida”, simile al paziente di Freud: impoverito, errante in un’assenza di mondo, incapace di riconoscere l’altro e se stesso. Chi non perdona impoverisce se stesso. Diventa “tiepido”, arido.
Ora, il perdono è in un certo senso contronatura, come pensava Dante: va contro cioè il bisogno umano di risarcimento (di un’offesa o danno subito). Nel XXIX dell’Inferno Dante intravede suo cugino Geri del Bello, ucciso da un membro della famiglia Sacchetti, e la cui morte non fu mai vendicata, come pure consentivano le leggi comunali (e ci fa capire che lui stesso avrebbe dovuto vendicarlo, visto che il cugino, “disdegnoso”, ora non gli rivolge la parola! Anche perciò il perdono non può essere prescritto né imposto a nessuno. Né si può decidere. È un atto gratuito, un momento di grazia che sospende il tempo, che si pone fuori dell’odio individuale, oltre la giurisdizione tirannica del padrone, e trasforma sia chi perdona e sia chi è perdonato.
Ma torniamo allora alla “convenienza” del perdono, il quale, rivolgendosi anzitutto alla persona e non all’azione (non perdono l’omicidio ma l’omicida), non implica alcuna compiacenza verso l’abiezione. Però come abbiamo visto ci consente di aprire il passato e di stabilizzare l’avvenire, e insomma di ristabilire un nuovo patto tra gli esseri umani. Che poi è l’unico modo di riparare la ferita. Kristeva, che si dichiara una “pessimista ma energica” crede nella possibilità di questo patto, per ricominciare qualcosa. Rimanda poi ad Hannah Arendt (non sarà un caso che sono soprattutto le donne a ripensare il perdono!), la quale concepisce un nuovo legame tra gli esseri umani come una “comunicabilità plurale”. Ricordiamo il monito di Arendt: “non l’uomo ma gli uomini sono il mondo”. Colpo di scena! Il perdono lungi dall’essere innaturale (il Dante dell’Inferno) corrisponde invece alla specificità della natura umana: non tanto e solo permette la rinascita (che comunque non è mai garantita), quanto ci fa ritrovare un mondo comune, la dimensione della pluralità e della comunicabilità. Riattiva la comunicazione tra gli umani.