Il nuovo saggio

Disarmata, profetica, inascoltata L’Italia che ripudia la guerra

Da Cassola a Morante, l’autrice passa in rassegna romanzi e racconti del Dopoguerra che hanno segnato la nascita di una nuova frontiera pacifista, rinsaldata dalla dura opposizione al nucleare

Cultura - di Filippo La Porta

19 Maggio 2025 alle 08:00

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Disarmata, profetica, inascoltata L’Italia che ripudia la guerra

Ci piaccia o no, viviamo nell’era nucleare a partire dal secondo dopoguerra, e dunque nell’era in cui per la prima volta la specie umana ha la possibilità di autodistruggersi. Al di là della consapevolezza dei singoli il tema è penetrato nell’inconscio sociale, generando angosce, fantasie apocalittiche, paure spesso inconfessabili. E influenzando l’intera sfera dell’esistenza: come educhiamo i figli e pensiamo al futuro, come guardiamo un paesaggio, come facciamo l’amore, etc. La nostra letteratura ha affrontato questo tema – “il fatto più importante che oggi accade” (Morante) – attraverso opzioni espressive e generi letterari diversi, come puntualmente ricostruisce Maria Anna Mariani in un bel saggio partecipe, concentrato, scritto con piglio felicemente antiaccademico: L’Italia e la bomba (Il Mulino).

Si comincia, quasi come in un noir, da una decisiva riunione all’Einaudi nel giugno 1963. Raniero Panzieri propose di pubblicare un libretto sull’emergenza nucleare, che includeva un discorso di Kennedy sul disarmo, ma Renato Solmi obietta che quel discorso è poco credibile, “bisogna non farsi illusioni”. Solmi è stato un intellettuale immenso, e prezioso mediatore culturale, ma in questo caso – conclude l’autrice – indulge al catastrofismo: “Meglio essere plumbei e addolorati, profeti di sventura, invece di abbracciare la virtù che non dispera mai”. Attraverso una riflessione su forme e modi dell’impegno civile l’autrice propone cinque ritratti di scrittori “impegnati”: Moravia, Calvino, Morante, Sciascia, Pasolini. Ma poi l’orizzonte si allarga a Hannah Arendt, Anders, Bloch, Jonas, ai francofortesi e a pensatori importanti ma ancora non tradotti nel nostro paese, come Leo Bersani. Si comincia e si conclude con Cassola e il suo coerente impegno pacifista: nel 1980 pubblica Contro le armi, dove troviamo una disamina della posizione contraddittoria dell’Italia nella Guerra Fredda (ha permesso l’installazione di armi nucleari benché in contrasto con la Costituzione) e auspica la fine degli stati nazionali. Dove ciò che colpisce è la discrepanza tra la popolazione, avversa alle armi nucleari, e settori delle classi dirigenti.

Bersaglio polemico del saggio di Mariani è la condizione oggi diffusa in Occidente del bystander, di una passività corresponsabile, di una complicità involontaria, di una colpevole impotenza di fronte alla catastrofe, di una sostanziale indifferenza al dolore degli altri (ricordate Gramsci, Odio gli indifferenti?). Tra l’irrilevanza (geopolitica) e complicità del paese e l’irrilevanza e complicità dell’intellettuale vi è simmetria. Condivido l’ispirazione del saggio, l’invito a non rassegnarsi, ad abbracciare la virtù che non dispera, o, come avrebbe detto Benjamin, il dovere di trarre dalla sventura stessa tutte le chance che pure implica. Ma dato che l’impegno intellettuale può manifestarsi “anche nelle forme più oblique e inaspettate” proviamo a inoltrarci su questo sdrucciolevole terreno.

Morante scrive un saggio-conferenza smagliante, di critica della civiltà, “Pro o contro la bomba atomica” (stimolante un commento alla Storia, sempre di Morante, in cui Hiroshima, a differenza di Auschwitz, compare ma è irrappresentabile), Calvino propende per la apparente levità del racconto fantascientifico, Moravia si divide tra articoli “militanti” e romanzi disincantati e voyeuristici (oltre che incarichi al Parlamento europeo), Sciascia si occupa delle responsabilità degli scienziati (ed elogia il Gran Rifiuto del fisico Majorana), Pasolini firma un originalissimo film-saggio come La rabbia, dove il volto di Marilyn Monroe sfuma nell’immagine del fungo atomico, a dire la estetizzazione (e neutralizzazione) della catastrofe da parte del potere, ma con un’ambigua adesione delle avanguardie (Stockhausen dichiarò la sua ammirazione per la bellezza trasgressiva dell’attacco alle Torri Gemelle!). Cosa ricavare da questi densi capitoli di storia letteraria? Continuo a pensare che per uno scrittore l’unico impegno autentico riguardi la scrittura: “Una cosa scritta male è falsa” (Flaubert). Prendersi cura anzitutto della lingua, di ogni parola che si usa. Troppo spesso il famigerato engagement si risolveva nel firmare appelli e petizioni (per sentirsi dalla parte giusta senza rischiare nulla). Aggiungo che per Sciascia l’impegno dello scrittore è a dire la verità – contro ogni forma di potere -, a rispondere con onestà e rigore alla propria coscienza. C’è però un altro tipo di impegno che ci riguarda come cittadini, e anzi come esseri umani. In che modo potrebbe tradursi?

Resta fondamentale un apologo di Moravia, qui rievocato e commentato, C’è una bomba N anche per le formiche (racconto brevissimo compreso nella Cosa, 1983), dove un intellettuale al mare, pensosamente chino sui destini del mondo, devoto all’imperativo morale di pensare ogni mattina alla questione atomica (ma anche ben protetto dal suo status e dai suoi privilegi), scopre l’invasione delle formiche in cucina e decide di annientarle con un insetticida. Non le percepisce come vittime: “questa strage si è svolta nel silenzio, lui non ha sentito nulla”. Non perciò è un esecutore innocente, anzi cerca di immaginarsi la loro agonia, i loro lamenti terminali, il dolore che ha sfigurato le minuscole teste: “Solo chi arriva a immaginare l’effetto delle proprie azioni – annota Mariani – arriva alla possibilità della conoscenza”. Arriviamo qui al nucleo del discorso: solo attraverso l’empatia e la capacità di immedesimazione nell’altro – un’attitudine propria dello scrittore – si ridefinisce la sua responsabilità.

Attraverso questa allegoria “Moravia rimpicciolisce le proporzioni della catastrofe”, e così rende percepibile “la dismisura della distruzione”, l’incombere dello sterminio, la vulnerabilità di ogni creatura (evidenziata dal nucleare). Il suo invito a sviluppare la nostra immaginazione morale si rivolge non solo agli intellettuali ma a ciascuno di noi. Proviamo a “rimpicciolire” la catastrofe per affrontarla davvero. Perfino le proposte di smilitarizzazione – benché meritorie e certo bisognose di una attenta, realistica formulazione – rischiano di diventare astratte. Né bastano i retorici proclami contro la violenza sparsa nel globo. Manganelli ci aveva scherzato sopra: “Certo, rilutto all’omicidio, disapprovo la guerra, sono severissimo con gli stermini…”.

Chiediamoci allora se i nostri livelli attuali di vita, basati su squilibri planetari, richiedano la guerra (o l’uso dell’energia nucleare). Bisognerebbe sabotare il nucleare nei comportamenti della vita quotidiana: ridurre i consumi, riuscire a “vedere” le tante vittime invisibili intorno a noi, reagire di fronte a una discussione – al bar o in treno – che condurrebbe all’omicidio (come raccomandava Adorno), riconoscere la vulnerabilità come condizione universale umana (Adriana Cavarero) – cosa che nessuna destra potrà mai fare – , sottrarsi individualmente al gioco del potere. Siamo tutti egualmente esposti al caso e alla mortalità. Su questo destino comune può fondarsi l’unica democrazia davvero inclusiva, quella della “ginestra” leopardiana.

19 Maggio 2025

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