L'essenza dei grandi romanzi

Basta gialli d’agosto, l’estate è tempo di classici: rileggete Flaubert e Dostoevskji

“L’educazione sentimentale” ci ricorda che le esperienze più forti son quelle non vissute. Sessantotini, vi ricorda qualcosa? E se pensate di saper tutto su bene e male, i Karamazov vi daranno il mal di testa...

Cultura - di Filippo La Porta

23 Agosto 2023 alle 15:30

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Basta gialli d’agosto, l’estate è tempo di classici: rileggete Flaubert e Dostoevskji

L’estate è tempo di classici. Nulla contro il giallo o neonoir, ma un buon classico vi intrattiene ed è al tempo stesso istruttivo, vi distrae dal presente e vi aiuta a capire il mondo. Vorrei parlarvi di due classici dell’’800, il secolo del romanzo, usciti a distanza di dieci anni: L’educazione sentimentale (1869) di Flaubert, dove scoprirete che a volte l’esperienza più importante è quella che non avete fatto e I fratelli Karamazov (1879) di Dostoevskij, dove si dimostra – per modo di dire: la letteratura non “dimostra” nulla, non è come la matematica – che l’equivalenza bene-male non porta a un accrescimento vitale ma all’indifferenza..

In generale l’aspirazione di un romanzo è di raccontare la vita quotidiana, la vita privata (a sua volta è attraversata da conflitti sociali). Ma come si fa a rendere interessante la vita quotidiana, che per sua natura è ripetitiva e noiosa? La risposta del romanzo è stata, fino a un certo punto, l’uso del melodramma (erede della tragedia), cioè grandi passioni, amori laceranti e impossibili, eloquenza (Balzac o Dickens). Ma già in Flaubert c’è pochissimo melodramma e anzi prevale un distacco, uno straniamento. Prendiamo l’Educazione sentimentale, che racconta l’amore di un giovane provinciale per una donna sposata, e matura, sullo sfondo parecchio inquieto della rivoluzione del 1848 e del Secondo Impero di Napoleone III. È la storia morale e intellettuale di una generazione.

La critica ha sostenuto per molto tempo che L’educazione non fosse alla stessa altezza di Madame Bovary. Così Vargas Llosa, mentre Proust lo adorava. Per Henry James L’educazione rappresentava un “grande” fallimento, poiché il personaggio di Frèdèric Moreau era un mediocre, “tarpato” nel suo destino dalla sua mediocrità. Che fraintendimento, da parte di Henry James, pure grandissimo romanziere. Ora, Frèdèric e il suo inseparabile amichetto Deslauriers da ragazzini vogliono entrare in un bordello per la loro iniziazione all’eros. Una volta nella sala d’attesa, sono presi dall’ansia e alla fine scappano via. Concludono – ed è la conclusione del romanzo stesso – dicendo che la loro esperienza più bella e formativa è stata proprio quella: “Non abbiamo mai avuto niente di meglio, dopo”.

Dunque una esperienza che non hanno fatto! Una assenza, un fallimento. Questo tema del fallimento come momento decisivo della formazione, dell’impotenza come sigillo dell’esperienza stessa, torna in molti romanzi novecenteschi, dalla Montagna incantata di Mann alla Linea d’ombra di Conrad e alla Coscienza di Zeno di Svevo. Credo che sia una verità fondamentale. Penso alla politica, e alla mia generazione: la famosa Rivoluzione – nell’Educazione sentimentale si parla molto della Rivoluzione e delle sue speranze deluse – non siamo riusciti a farla (si trattava in parte di una allucinazione), però non averla fatta ci ha formati, ci ha permesso di maturare, anche perché solo non avendola fatta la custodiamo dentro di noi (immacolata), come il sogno di una cosa di cui parlava Marx, e che intitolò un’opera pasoliniana.

Chissà, pronta a riattivarsi. Le scene memorabili del romanzo sono molte, le descrizioni delle feste parigine ispireranno quelle analoghe della Recherche proustiana. Ma dopo aver citato la scena conclusiva ricordo soltanto quella iniziale. l’inizio con il battello che solca la Senna e arriva a Parigi, e lo studente Frédéric che raccoglie il fazzoletto di Madame Arnoux che sta per scivolare in acqua. Ecco, così si comincia un libro sull’amore, come una volta osservò il nostro scrittore Andrea Carraro, che ne restò influenzato a vita! Frèdèric conoscerà la doppiezza morale, l’ambiguità, la scissione dell’io, etc., tutte cose poi metabolizzate dalla modernità, e quasi divenute dogmi. Ci si potrebbe chiedere: l’ambiguità dobbiamo accettarla perché ineliminabile, o invece vale la pena tentare di combatterla o almeno di ridurla un poco? Passiamo a Dostoevskij.

Perché leggere I Fratelli Karamazov? Nei Karamazov la Leggenda del Grande Inquisitore è un racconto scritto in gioventù da Ivan Karamazov, cioè dall’erede nichilista dei Raskolnikov (Delitto e castigo) e Stavrogin (protagonista nei Demoni), incarnazione più coerente dell’uomo del sottosuolo, capzioso Sofista del Male, capace di legittimare ogni desiderio, anche il più turpe, con ottimi argomenti. Il suo motto suona così: “Tutti gli uomini sono ugualmente colpevoli” (e peccatori); e perciò si sente autorizzato a peccare ad oltranza. Il suo rifiuto di un mondo dove ci sono bambini che soffrono può convertirsi facilmente nel desiderio di un mondo senza bambini! Per Dostoevskij invece il singolo deve anzitutto riconoscere la propria parte di peccato, senza proiettarla sugli altri (su un doppio o “sosia”, come si intitola il suo primo romanzo ).

L’ “allucinazione demonistica” è quella di chi rifiuta la propria (inferma) umanità e così però nega l’umanità tutta. Il Grande Inquisitore rimprovera Gesù perché avrebbe proposto agli esseri umani un ideale troppo alto, mentre lui sa che gli esseri umani non aspirano affatto al libero arbitrio tra bene e male ma vogliono un’autorità che li governi, e che “organizzi la loro vita come un gioco infantile”. Ora, benché Dostoevskij nei suoi romanzi sia “polifonico” – dà ragione di una varietà di punti di vista – in nessun caso la filosofia del Grande Inquisitore va assunta come una “agenda” che dovrebbe ispirarci! Attraverso di lui scopriamo come il male sia ingannevole e sofistico, perché da quella debolezza – certo reale – deduce l’impossibilità della dignità e libertà umana. Ma il punto è che tra il realismo del Grande Inquisitore e l’inaccessibilità di un modello di vita troppo elevato (che genera ipocriti), Dostoevskij suggerisce una terza modalità, rappresentata dal Karamazov più giovane, Aliosa.

Questi impara a riconoscere la corruttibilità della condizione umana (perfino il corpo dello starez Zosima dopo la morte si decompone …), ma da ciò non conclude che il mondo è assurdo e che l’umanità va governata dispoticamente. Aliosa non si mette su un piano superiore a tutti gli altri uomini (come il Grande Inquisitore). Sta interamente alla loro altezza. Non aspira a dominarli, né lo crede possibile. Si considera colpevole sì – una sua esitazione contribuirà all’assassinio del padre -, ma deciso a trasformare la parte peggiore in quella migliore. Non ritiene che tutto sia permesso, non segue il diavolo (loico) e i suoi teoremi così conseguenti, non scambia la parte (il nulla, la morte) per il tutto (la vita, l’essere), accetta l’ambiguità ma non ne fa un programma!

Il suo gesto simbolico – e dal sapore mistico – di gettarsi a terra e baciarla commosso, serve a esprimere una fede non tanto in Dio quanto nella realtà, ovvero nella relazione tra noi e tutti gli altri, nella compresenza (misteriosa) dei vivi e dei morti, nella reciprocità, nella possibilità di scelta tra bene e male (se li facciamo diventare equivalenti diventeremo “tiepidi”). Mentre il diavolo ci vuole convincere della irrealtà, ossia dell’isolamento di ognuno, dell’unica verità di chi esercita il potere, della indistinzione bene-male, della riduzione maligna di ogni impulso umano a interesse egoistico…. La carità è collegata all’amicizia (come intuì san Tommaso): si vuole il bene dell’altro, senza cercare il proprio vantaggio. Aliosa risponde al fratello Mitja: “L’etica?… non ti so spiegare che scienza sia”. Appunto.

La soluzione non sta in un’etica astratta e prescrittiva. L’unica utopia morale accettabile è quella concreta, che per un attimo balena nella comunità fraterna di ragazzi riuniti intorno ad Aliosa da un patto segreto: “per quanto possiamo diventare cattivi il ricordo di un sentimento buono che una volta provammo è in grado di salvarci…”. In fondo, per “salvarci” basta il ricordo, non tanto di una esperienza fatta quanto anche di un solo sentimento buono che abbiamo provato (Fèdèric la complicità e amicizia fraterna, Aliosa la solidarietà del piccolo gruppo).

23 Agosto 2023

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