La scomparsa dell'intellettuale

Cos’è il Secolo post-americano: la morte di Joseph Nye, il politologo che vedeva il futuro

La lezione di Joseph Nye, il grande politologo americano che qui in Italia è praticamente sconosciuto. Non è con la guerra e con l’hard power che si conquista la leadership sul mondo

News - di Michele Prospero

25 Maggio 2025 alle 13:18

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Cos’è il Secolo post-americano: la morte di Joseph Nye, il politologo che vedeva il futuro

Alla scomparsa del politologo americano Joseph S. Nye ha dato ampio risalto la stampa in Cina. Troppo intontiti dalla sbornia bellicista per ascoltare voci dissonanti, i “volenterosi” media italiani hanno preferito tacere. Lo studioso di Harvard sconsigliava fermamente di risolvere l’odierno disordine internazionale con il ricorso alla trincea post-moderna che ospita sciami di droni comandati dall’intelligenza artificiale. Auspicava, al contrario, una legittimazione in chiave politica dei nuovi equilibri maturati tra la potenza statunitense in decadenza e quella cinese in ascesa.

Al cuore del suo celebre libro (Bound to Lead: The Changing Nature of American Power, New York, 1990) c’è l’individuazione di una sorta di paradosso del potere: più uno Stato influente fa uso degli strumenti di “hard power” (sanzioni, armi, invasione di territori altrui) e più la sua signoria risulta inefficace e precaria. Invece maggiore è l’affinamento del “soft power” (ideali, cultura, valori, politiche, accordi, cooperazione istituzionale), maggiore appare l’incidenza di un Paese-guida nelle relazioni interstatali. Alla luce di questa asimmetria tra forza e consenso, immaginario ed esibizione dei muscoli, il consulente di varie amministrazioni democratiche, nonché lettore attento di Machiavelli, suggerisce di non consegnare la mappa della politica globale al culto dei marines sparsi ovunque con la missione di esportare la liberaldemocrazia.

Come programma per minimizzare la coercizione bellica nel collegamento tra il centro e le periferie, il concetto di soft power non sfugge al rischio della banalizzazione per cui negli affari esteri più che i carri armati e l’arbitrio conterebbero Hollywood, i jeans, la Coca-Cola, McDonald’s e l’NBA. In uno scritto del 2005, tradotto in Italia da Einaudi (Soft power: un nuovo futuro per l’America), Nye non nega il peso della cultura di massa nella penetrazione universale dello stile di vita a stelle e strisce, tuttavia si lamenta di una eccessiva semplificazione pop della formula da lui coniata. Rammenta perciò che egli intendeva, per fonti del “potere morbido”, il costituzionalismo, la Silicon Valley, Harvard, Microsoft, l’economia dell’innovazione, le bio e nanotecnologie, le dichiarazioni sovranazionali dei diritti. L’euforia imperiale successiva alla implosione del nemico sovietico ha sospinto Washington ad occupare la scacchiera pluridimensionale del capitalismo digitale con la divisa e le bombe. Democratici e Repubblicani all’unisono hanno rifiutato la legittimazione dell’ordine mondiale attraverso il diritto e l’Onu, la diplomazia e il compromesso. Con la seconda guerra del Golfo (2003), si è avuta la rimozione dei fondamenti della grande politica, che edifica ponti e diffida della pura forza nel giustificare le manovre ambigue dello Stato leader. Nei loro piani, sintetizza Nye, “gli Stati Uniti hanno progettato un esercito più adatto a sfondare una porta, picchiare un dittatore e poi tornare a casa, piuttosto che rimanere per il più duro lavoro imperiale di costruire una politica democratica”.

L’ubriacatura unipolare, refrattaria ad ogni sbocco pattizio, si sgonfia dentro le zone oscure della globalizzazione, così densa di continue fratture da ravvivare persino forme di privatizzazione della guerra. L’intrico del nascente modo di produzione e di scambio ben presto ha scalfito le basi materiali e politiche della primazia americana. Il fulcro dell’ordine internazionale liberale è stato spezzato e, sulle rovine dell’Impero, si insinua via via il crepuscolare sentimento del declino. Nei vertici della coalizione militare-industriale affiora una sensazione di angoscia dinanzi al celere avanzamento della Cina, che oramai maneggia quasi la metà dei colossi aziendali. Il ridimensionamento yankee, in un’arena che assiste al proliferare di altri dinamici soggetti dell’economia i quali minano la rendita di posizione del dollaro, induce al disimpegno rispetto alle spinose questioni commerciali, demografiche, climatiche e tecnologico-militari. Il convincimento di Nye, però, è che nessuna politica estera aggressiva, che nella conduzione dello scontro Occidente vs. Oriente contempli cioè una replica della guerra fredda o calda, è effettivamente idonea ad arrestare le opportunità di crescita ottenute dai Brics grazie alla unificazione dei mercati.

Il nocciolo dell’equazione dell’egemonia geopolitica non si riduce peraltro alla sola carta economica, che pure annuncia un sorpasso ineluttabile – attualmente un centinaio di Paesi considera la Cina il principale partner nei traffici, sette soltanto intrattengono legami privilegiati con gli USA che comunque non smettono di indirizzare importanti organismi finanziari. La partita per ridefinire il predominio dello spazio non si esaurisce nella supremazia militare, là dove si conferma una prevalenza del club atlantico. Imprecisioni fatali di misurazione degli indici di pericolo potrebbero trascinare alla catastrofe nella delicata fase di interregno che svela inediti rapporti di forza tra le grandi potenze. I vantaggi ancora lucrati da Washington (militari, energetici, monetari) raccomandano di raffreddare la fobia anticinese. In una delle ultime opere (Do Morals Matter? Presidents And Foreign Policy From FDR To Trump, Oxford University Press, 2020), Nye avverte che, sebbene alle prese con le dispute territoriali con Taiwan, India, Giappone e Vietnam, il governo di Pechino propende a concentrarsi sul versante economico, con un occhio di riguardo per l’high tech. Quella diretta da Xi Jinping quindi non è affatto una compagine antisistema che coltiva l’ambizione di rovesciare con la violenza l’ordinamento internazionale scricchiolante.

L’adozione di un gioco a somma zero, che postula una secca polarizzazione democrazie-autocrazie, preclude qualsiasi canale negoziale con il pretesto di isolare un regime temibile a causa delle tecnologie di sorveglianza possedute. In tal senso nefasto si rivela il motto “America First”, che a furia di armamenti, sanzioni, ritorsioni e dazi fa saltare le esistenti catene di interdipendenza. Ciò che più spaventa Nye è la convergenza dei Democratici e dei Repubblicani entro il paradigma (non solamente) trumpiano di una feroce “competizione strategica” con la Cina: una condotta che enfatizza i contrasti e, in ossequio all’imperativo di difesa e deterrenza, non ammette tentativi di contrattazione. Ispirato da un “moralismo realista”, Nye confida nel governo collegiale delle emergenze perché “le istituzioni sono una modalità indiretta per promuovere i valori tramite la creazione di beni pubblici globali”. Dunque egli trova un punto d’incontro con gli assunti del cosiddetto “realismo morale” del politologo cinese Yan Xuetong, che esclude una inimicizia strutturale tra blocchi rigidi e prevede alleanze fluide, margini di trattativa. Vanno cercate, per entrambi gli analisti, le condizioni per affermare un ragionevole modello che anche nell’antagonismo, nella differenza non archivia lo spiraglio dell’intesa.

Le ineliminabili distanze ideologiche tra Est ed Ovest, così come le contese attorno agli interessi geopolitici, non possono mai annullare la collaborazione per il controllo della complessità nell’era dell’algoritmo (cura dei beni comuni della Terra, stabilità finanziaria, manutenzione dei big data, prevenzione della guerra dell’informazione, lotta al terrorismo). “La relazione tra Stati Uniti e Cina – nota Nye – è una rivalità cooperativa in cui si profila una strategia vincente di ‘competizione intelligente’. Simile scenario richiederà una buona intelligenza contestuale, una gestione accorta da ambo le parti e nessun grave errore di calcolo”.
In siffatta cornice, alla potenza decadente è permesso diluire i tempi del proprio trapasso e pertanto rendere meno traumatico il disegno di un diverso ordine indispensabile in un frangente di accelerata trasformazione delle economie. L’America dovrebbe, per una convenienza di più lungo periodo, interrompere l’inclinazione all’indebolimento delle organizzazioni multilaterali che sono necessarie per il governo delle crisi (climatica, sanitaria, terroristica, informatica).

Nel secolo post-americano, pieno zeppo di trappole reciproche, tocca alla politica tracciare, con un esito a somma positiva, un sistema multipolare. Esso, in un quadro di costante espansione delle norme e delle istituzioni, esige di calibrare i dispositivi di sicurezza e le pratiche diplomatiche, la dissuasione e le reti formali condivise. La potenza ascendente, per parte sua, può dedicarsi a superare il più rilevante handicap del Dragone quale attore planetario: il ritardo nell’accumulazione di soft power, per l’appunto. Negli anni ’60, quando era assai povera, la Cinacon il comunismo di Mao – ricorda il professore americano – aveva un potere transnazionale molto più attraente di quanto ne abbia oggi, allora era capace di mobilitare i manifestanti nelle strade di tutto il mondo”. Se riuscisse ad integrare i cospicui investimenti oltrefrontiera, le ingenti spese in ricerca e sviluppo per raggiungere il primato nell’IA, gli aiuti al Sud globale, con il plusvalore ideologico dei diritti inscritti nel socialismo con caratteristiche cinesi, ecco che una idealità radicale ritornerebbe a sfidare il dominio del capitale. Mentre l’Europa è sviata dai volenterosi guerrafondai, le pagine di Nye offrono spunti per la preparazione di un rinnovato e pacifico assetto internazionale.

25 Maggio 2025

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