I due romanzi
Cos’è diventato il lavoro: i romanzi “Il dipendente” e “Gli straordinari”, sul tempo ingoiato e sottomesso
Il dipendente e Gli Straordinari. Lavorando in solitudine al computer ciascuno diventa l’imprenditore di sé, contemporaneamente un padrone dispotico e un lavoratore senza diritti né orari
Cultura - di Filippo La Porta

Il Primo Maggio – in cui non si sa mai bene se bisogna liberare il lavoro o liberarsi dal lavoro – bisogna tornare a chiedersi cosa è il lavoro oggi, cosa rappresenta per le nuove generazioni. Proviamo a farlo con due romanzi a loro modo epocali (entrambi di esordio per i loro autori), usciti a distanza di trent’anni.
Il primo, pionieristico, romanzo postindustriale della nostra letteratura esce nel 1995 (Il dipendente ora ristampato da Feltrinelli con prefazione di Emanuele Trevi, di Sebastiano Nata), e inaugura un filone rigoglioso di letteratura postindustriale, da Avoledo a Pacifico, passando per il precariato di Murgia, Bajani e Nove), mentre l’ultimo è stato pubblicato alla fine dell’anno scorso (Gli straordinari, Mondadori, di Edoardo Vitale). Nel primo Michele Garbo, un manager di Transpay, immaginaria azienda di carte di credito, con tutti i privilegi del caso (alto stipendio, auto aziendale, benefit e bonus a schiovere), vede crollare la sua vita privata e si avvita in una spirale autodistruttiva, tra dipendenza coatta dal sesso e pratiche degradanti. Nel secondo Elsa e Nico, dirigenti creativi di una multinazionale, la pAngea – dedita a sviluppo sostenibile e transizione ecologica – , belli, giovani, ricchi, green, realizzati (dieta sana, casa ben arredata, cibi biologici e a km zero, abbigliamento slow fashion, sport e yoga), scoprono che l’ansia competitiva e la ricerca individuale del successo li ha disumanizzati, a loro insaputa. Il setting è lo stesso: la città di Roma, in un caso Roma Nord, nell’altro Roma Sud.
Sia Michele Garbo che la nostra coppia – esponente della classe creativa – viaggiano spesso su voli intercontinentali. E, come Homer Simpson in una celebre puntata dei Simpson (geniale parodia del Faust goethiano), hanno venduto l’anima al diavolo, “tanto l’anima non esiste”. Poi, come quella di Homer – che se l’era venduta in cambio di una ciambella! – , la loro vita ha cominciato impercettibilmente a impoverirsi e a svuotarsi. “Da tredici giorni, a centocinquantamila lire al giorno, totale un milionenovecentocinquantamila. Costo fisso per mantenere un minimo di dignità. Quanto posso tirare avanti?….”. La martellante paratassi del romanzo di Nata e cioè l’uso di periodi brevi, privi di subordinate, a volte di una sola parola (“Entro in macchina. Metto in moto. Parto. Ho deciso…..”), è l’esatto equivalente di una paratassi dell’esperienza nella società liquida (un’esperienza frammentata, spezzettata, raccolta in segmenti giustapposti senza più un centro che li collega).
La letteratura è fatta di stile e di ritmo prima ancora che di contenuti. Anche se poi l’autore ci racconta meticolosamente, basandosi in parte sulla propria biografia, cosa avviene in quell’ambito lavorativo. Dinamiche dell’ufficio, strategie di lotta, gerarchie esplicite o nascoste, psicologie aziendali, tecniche retoriche di costruzione dei discorsi aziendali, sono descritte con una esattezza affilata degna di Stendhal (che aveva come modello la prosa del codice civile). Alla fine lui non è più dipendente della Transpay: intontito dal whisky deve ridefinire la propria identità, basandola su altre cose. L’apocalisse finale – che forse contiene una salvezza – diventa il logico corollario di un teorema geometrico. Nel romanzo di Vitale ci imbattiamo nel capitalismo etico. Elsa e Nico inventano una app di grande successo nella sezione salute e benessere: WeBreathAgain, quasi una propaggine del buddhismo mindfulness. Sembrano in totale sintonia con i “valori” della propria azienda (loro sono proprio quei “creativi” e professionisti contro cui Trump ha demagogicamente scagliato la sua plebe risentita e manipolabile: istruiti, salutisti, cosmopoliti ). Ma il prezzo che hanno dovuto pagare per la loro irresistibile scalata di top manager è troppo alto: si sentono alienati, sottoposti a ritmi di vita frenetici, unicamente devoti a guadagni esorbitanti.
Dimentichi delle cose preziose della vita, che non si possono acquistare né vendere, annegano nel “vuoto lattiginoso” che si sedimenta ogni sera. Intanto l’ambiente tutt’intorno è sfigurato dall’inquinamento crescente: scoppiano incendi dappertutto, un gruppo di attivisti ambientalisti – che occupano centrali elettriche, cantieri, giacimenti di petrolio, e imbrattano opere d’arte – assedia la convention di pAngea alla Nuvola dell’Eur (uno di loro viene arrestato con il brand di pAngea sulla T-Shirt!). Anche qui: finale apparentemente catastrofico, ma forse ci salverà l’amore, come vorrebbe Elsa. Se i due libri si limitassero a denunciare l’avidità dei capitalisti e la reificazione del mondo del lavoro, a celebrare i piaceri di una vita frugale e le gioie dell’amore, ci troveremmo di fronte all’ennesima, stucchevole retorica pauperista (che fa sentire più nobili tutti, sia autori che lettori). No, gli autori non ci fanno una predica moralista né hanno scritto dei manifesti sulla decrescita. Soltanto descrivono, con la precisione “scientifica” che ha solo la letteratura, le conseguenze inevitabili di un certo modello o stile di vita, sulla nostra psiche, sulla nostra emotività, sul nostro immaginario, sul nostro stare al mondo.
Alla fine il cuore di entrambi i romanzi, e il “nemico” dei loro protagonisti, è il tempo: un tempo accelerato, compresso, sottomesso ai ritmi frenetici del lavoro.
Come ha osservato Byung-chul nell’economia attuale della conoscenza ciascuno di noi, lavorando da solo al computer, diventa l’imprenditore di se stesso: contemporaneamente un padrone dispotico e un lavoratore senza diritti né orari. Il mondo del lavoro nella globalizzazione è una realtà variegata, e non possiamo certo renderne conto in queste righe. Limitiamoci a una considerazione. L’automazione e la robotica potrebbero essere emancipative, e portare a una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, se slegate dalla logica del profitto. E ciò non accade (in Cina la settimana lavorativa nel privato è di 72 ore!).
Eppure oggi si tende a ridimensionare il peso del lavoro (il lavoro necessario per vivere), del tempo lavorativo, dentro l’esistenza dei singoli, per riscoprire un ozio attivo, quei “lavori” cioè che svolgiamo per dedizione e amore gratuito. Ci permettiamo allora di correggere il Primo Levi della Chiave a stella: non tanto un lavoro che ci piace è la migliore anticipazione del paradiso terrestre quanto un’esistenza che rimetta al centro attività disinteressate, “inutili”, non finalizzate, lì dove si manifesta l’unica vera utopia dell’umano.