Come salvare l'economia

Salario minimo e rinnovi contro il lavoro povero

Per ridare potere d’acquisto ai lavoratori e rilanciare i consumi occorre dire basta alla triste pratica delle eterne proroghe dei contratti collettivi: nell’era dei maxi-profitti per le imprese gli alibi sono finiti

Politica - di Cesare Damiano - 3 Marzo 2024

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Salario minimo e rinnovi contro il lavoro povero

Il primo di questa serie di articoli pubblicato da l’Unità il 15 febbraio (“Yes we Keynes, un piano industriale per tornare a crescere”) era dedicato alla politica industriale. Collegando i punti di un ragionamento complessivo sull’andamento economico del Paese, per quanto di mia competenza, voglio passare in questo articolo a un tema altrettanto vasto: quello della contrattazione.

Per introdurre l’argomento intendo partire dalla trattazione svolta, in un recente articolo, dal professor Marco Leonardi, docente di Economia dell’Università Statale di Milano. Sostiene Leonardi – partendo dalla constatazione che, recentemente, i profitti delle imprese sono molto cresciuti – che “i salari […] potranno aumentare solo con il rinnovo dei contratti nazionali (in ritardo) e attraverso la contrattazione decentrata […]. Sul rinnovo del contratto nazionale le banche hanno dato il buon esempio con un aumento salariale generoso (435 euro mensili medi) anticipato dalla decisione di una grande banca. Ma per altri settori, per esempio il commercio, in cui i profitti medi non sono aumentati e la differenza tra le imprese all’interno dei settori è molto grande, il contratto nazionale non può essere l’unica via. La contrattazione decentrata è l’unico modo per recuperare spazio ai salari perché non tutte le imprese sono uguali e non tutte hanno fatto profitto […]”.

Trovo che la conclusione alla quale giunge Leonardi non sia del tutto convincente per la parte relativa alla contrattazione decentrata. Vediamo perché. È senz’altro vero che il quadro economico sia migliorato e che includa profitti più alti, rispetto al recente passato, a beneficio delle imprese.

Basta, in questo senso, citare quanto affermato dal governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, che auspica, da parte della Bce, una politica di abbassamento dei tassi d’interesse. Panetta prevede che tale svolta dovrebbe manifestarsi già nei prossimi mesi, dato che non ci sono pericoli di un rialzo dell’inflazione che è diminuita ad una velocità superiore a quella dell’aumento dei mesi precedenti.

Il Governatore sostiene, in questo quadro, la necessità di far crescere i salari. E afferma che non ci sia il rischio dell’innescarsi di una spirale prezzi-salari. Anzi, in questo momento, rileva Panetta – così come ricorda Leonardi -, le imprese hanno fatto utili molto alti e il miglioramento del potere d’acquisto non solo è compatibile con i bilanci aziendali, ma utile al Paese. Perché, ridando fiato alle retribuzioni, si ridà fiato ai consumi e all’economia.

Ora, il punto che intendo sottolineare, è che il contratto di secondo livello è uno strumento cardine nei settori più ricchi e nelle aziende più innovative che possiamo però elencare sulle dita di poche mani.

Parliamo di imprese come Cucinelli, Luxottica, Italo, Lamborghini, Ferrari, le grandi utility e di una serie di aziende di media dimensione. Ma come procede la contrattazione decentrata al di fuori di queste imprese medio-grandi e di questi settori di eccellenza?

Il primo Capitolo del rapporto Inapp 2023 (“Il mercato del lavoro in Italia: evidenze per ripensare le politiche del lavoro”, paragrafo “1.3 Salari e produttività del lavoro”) spiega che “per comprendere meglio l’efficacia del sistema italiano di wage setting (fissazione dei salari) è opportuno verificare il grado e le caratteristiche di radicamento dei due livelli di contrattazione tramite l’utilizzo di due dataset sui Premi di Risultato, circostanza importante considerata l’assenza di statistiche ufficiali sul tema. In primo luogo, i dati del Mef dell’archivio ‘Dichiarazione dei redditi’ indicano un utilizzo effettivo dei Premi di Risultato molto limitato, che interessa solo il 9% dei lavoratori dipendenti”.

Dunque, sul piano salariale e non solo, appena una parte decisamente minoritaria di lavoratori può giovarsi della contrattazione di secondo livello. Per tutte le altre aziende, cioè la stragrande maggioranza, più piccole o micro e meno ricche dei grandi fiori all’occhiello del tessuto produttivo italiano, tale opportunità semplicemente non esiste.

Lo strumento cardine rimane perciò il contratto nazionale, se si vuole una redistribuzione universale di risorse a favore del potere d’acquisto delle retribuzioni. Del resto, da almeno quarant’anni a questa parte, la distribuzione della ricchezza è andata a discapito del lavoro che ha visto costantemente diminuire il suo peso specifico.

Sul tema della contrattazione propongo, perciò, questo schema di ragionamento. Non c’è dubbio che il modello contrattuale, sancito dal Protocollo Ciampi del 1993, che si basa su due livelli di contrattazione, col tempo abbia mostrato la corda. Si è dimostrato vitale negli anni immediatamente successivi a quella data e si è inevitabilmente indebolito con il passare del tempo.

All’epoca, erano gli anni 90, ero responsabile della Contrattazione della Fiom-Cgil nazionale e voglio sottolineare il fatto che il contratto dei metalmeccanici del 1994, un anno dopo la firma di quel Protocollo, fu rinnovato, forse per la prima volta nella storia della categoria, senza un minuto di sciopero, nei tempi previsti dal Protocollo medesimo.

Per tempi previsti intendendo la preparazione, tre mesi prima della sua scadenza, della piattaforma, e il negoziato nei tre mesi successivi alla scadenza accompagnato dalla moratoria degli scioperi. Nel 94, dunque, siamo arrivati all’intesa, con soddisfazione reciproca, senza dichiarare un’ora di sciopero. Più ci siamo allontanati da quella data, il luglio del 1993, più queste regole sono state disattese.

Nel loro travisamento va tenuto però conto che non tutti i gatti sono grigi. Consideriamo il fatto che, in linea di massima, alcuni settori, in particolare della manifattura – metalmeccanici e chimici – o dei servizi – bancari e assicurativi – hanno rinnovato, più o meno regolarmente, i loro contratti. Tant’è che, oggi, se parliamo di salario minimo, il livello contrattuale più basso di queste categorie supera la cifra indicata dalla proposta di legge delle opposizioni di 9 euro lordi orari.

Va osservato, nel merito del salario minimo, che la Direttiva dell’Unione Europea su questa materia non chiede l’introduzione tout court di questo istituto. Anzi, essa utilizza questo strumento per spingere l’introduzione della contrattazione collettiva o per potenziarla nei Paesi nei quali è assente o scarsamente diffusa.

In dicembre, il commissario Ue al Lavoro, Nicolas Schmit, ha affermato che “se la contrattazione collettiva non funziona bene, non porta a buoni risultati, perché vi sono squilibri tra le parti sociali, si può arrivare a una situazione in cui nonostante una vasta copertura contrattuale i salari sono molto bassi. Occorre migliorare il sistema di contrattazione collettiva se non funziona bene, perché si possono avere molte persone in povertà anche se lavorano […] Oppure, abbiamo il sistema dei salari minimi, non in via esclusiva, ma insieme”.

Nel nostro Paese occorre guardare, in particolare, a quei settori come commercio, ristorazione, logistica e via enumerando, per non parlare di operai agricoli, guardie giurate e florovivaisti, che sono tutti abbondantemente al di sotto della soglia dei 9 euro.

Questo, anche a causa di un mancato rispetto delle regole. Tra le quali la regola principe, sistematicamente travisata, è che i rinnovi, anziché alla scadenza del triennio o del quadriennio, avvengono dopo cinque, sei anni e oltre.

Consideriamo la situazione che si registra al momento. I contratti di commercio, turismo e ristorazione, scaduti da oltre quattro anni, interessano circa cinque milioni di lavoratori. L’Istat ha rilevato, nel terzo trimestre dello scorso anno, oltre 6 milioni e mezzo di lavoratori deprivati del rinnovo dei rispettivi contratti.

E a fine 2023 sono scaduti i contratti del settore calzature, della logistica portuale e degli autoferrotranvieri. Per non parlare dei numerosi contratti scaduti nella Pubblica amministrazione.  Poi, ci sono i contratti da rinnovare quest’anno: metalmeccanici, logistica, moda, personale ospedaliero. A fine anno, potremmo ritrovarci con oltre 10 milioni di lavoratori con il contratto da rinnovare.

Il Protocollo Ciampi del 23 luglio 1993 fu un vertice del rapporto tra lungimiranza di Governo e rapporti tra le parti sociali. Esso portava contenuti di grande rilievo sulla politica dei redditi, l’occupazione, gli assetti contrattuali, le politiche del lavoro, la formazione continua, il supporto al sistema produttivo, il dialogo sociale e l’equilibrio del Bilancio pubblico.

Oggi, come abbiamo ricordato, non si possono negare i difetti di quel sistema che si sono, via via, accumulati. In questo momento, nel quale è chiaro a tutti che il vulnus fondamentale è rappresentato dalla bassa qualità della prestazione lavorativa, dalla bassa qualità degli inquadramenti professionali e, di conseguenza, dalla bassa qualità delle retribuzioni, fatto in ragione del quale una parte della forza lavoro è riconducibile al cosiddetto lavoro povero – e parliamo di assunti a tempo indeterminato – l’unico strumento che possa coprire in modo universale i fragili e i meno fragili di una categoria è rappresentato dal contratto nazionale di lavoro, con tutti i suoi difetti.

Ed è, perciò, proprio in questo momento, che il contratto nazionale di lavoro va rilanciato e sostenuto. Per potenziare il potere d’acquisto delle retribuzioni non esiste un solo strumento risolutivo, ma un insieme di scelte che vanno compiute. Proviamo ad avanzare una proposta. In primo luogo la diminuzione delle tasse sui salari (cuneo fiscale), va resa strutturale e migliorata.

In secondo luogo vanno detassati gli aumenti salariali che sono il frutto dei rinnovi dei contratti, ma solo quelli che si stipulano alla loro scadenza naturale. Terzo, va istituito il salario minimo per i lavoratori che non dispongono di un contratto di lavoro (ad esempio chi svolge i nuovi lavori delle piattaforme digitali).

Infine, occorre fissare per legge i minimi di ciascun contratto nazionale maggiormente rappresentativo e di migliore qualità, al fine di renderli inderogabili e, partendo da questo obiettivo, riprendere la battaglia (al momento accantonata) per un salario minimo adeguato da conquistare con le necessarie gradualità e attraverso il confronto con le parti sociali.

Fine seconda Puntata – Continua

3 Marzo 2024

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