Il caso del centro sociale
Processo agli attivisti della Val di Susa, il fattore Askatasuna: bugie e soprusi per silenziare chi dissente
Hanno accusato i no Tav di associazione a delinquere, ma non si sono mai arricchiti. Continuano a chiamarli terroristi, ma nessuno dice che le accuse di sovversione sono cadute. Balle su balle per fermare chi protesta
Cronaca - di Marco Grimaldi

Per la seconda volta in pochi giorni sono stato invitato in una trasmissione televisiva, a Lo stato delle cose, a partecipare a un contraddittorio sulla vicenda che coinvolge il centro sociale torinese Askatasuna. Nelle scorse settimane, la Procuratrice generale del Piemonte Lucia Musti ha definito Torino “capitale dell’eversione di piazza”, mettendo in guardia dai pericoli che sarebbero rappresentati dalla galassia anarco-insurrezionalista e antagonista. Poco prima era stata preceduta da Enrico Aimi, membro laico del Csm, che aveva evocato un ritorno agli anni di piombo, sostenendo che “bene ha fatto lo Stato a chiedere 6,8 milioni di risarcimento agli imputati del processo Askatasuna”. Insomma, a processo ancora in corso, canali di informazione, esponenti politici e addirittura alti rappresentanti della magistratura stanno agitando il teorema dell’eversione a proposito di Torino e di Askatasuna. Sono stati diffusi stralci di intercettazioni (forniti da chi e a che scopo, se non quello di creare un nemico?), fra i quali alcuni non sono neanche entrati nel dibattimento, altri sono stati approfonditi e chiariti in sede processuale. Da settimane questa attenzione mediatica sta compromettendo la delicatezza di un processo penale a pochi giorni dalla sentenza, con l’evidente intenzione di influenzarne l’esito.
Un fatto grave per chiunque sia garantista. Intanto, perché quel teorema è già caduto: nessuno è più imputato per associazione di stampo sovversivo “finalizzata a compiere atti di resistenza a pubblici ufficiali” (vale a dire: l’oggetto delle proteste era solo un mezzo, mentre il vero fine sarebbe stato opporre resistenza ai pubblici ufficiali. Imputazione davvero assurda). Il giudice delle indagini preliminari ha escluso indizi per questo reato. Il Tribunale del Riesame, con un’ordinanza, ha in sostanza negato il carattere sovversivo dell’associazione e introdotto una differenziazione: a costituire un’associazione per delinquere (non sovversiva) non sarebbe il centro sociale ma un gruppo – formatosi all’interno del centro – dedito a compiere “delitti” principalmente in Val di Susa.
Come non mi stancherò mai di ripetere, le responsabilità penali sono sempre personali. Purtroppo, la Procura torinese ha deciso di condividere integralmente le ricostruzioni della Polizia, che appaiono semplificate e ostili. Perciò ha richiesto 16 misure di custodia cautelare in carcere, quattro arresti domiciliari e un divieto di dimora, contestando il reato di associazione sovversiva più altri 112 reati. Eppure, con la conclusione delle indagini preliminari, dei 91 indagati iniziali siamo già a 26. L’accusa di associazione a delinquere, che resta in piedi al di qua del carattere sovversivo, appare comunque fuori luogo per persone che con i loro atti non si sono arricchite né avvantaggiate in nessun modo. Inoltre, 106 reati sui 112 contestati originariamente riguardano episodi commessi in Val Susa. Il dubbio che il bersaglio più grande di questa operazione sia la resistenza contro la Tav appare fondato.
In ogni caso, il processo penale è ben altro dal processo politico e amministrativo intrapreso dalla città di Torino. Un percorso che pienamente rientra nelle prerogative di un Comune, che certo non si merita di vedere insultata la sua storia democratica. Altro che tornare indietro, come vorrebbe la destra, i cui esponenti continuano a chiedere lo sgombero di corso Regina Margherita 47. La Città e un comitato di proponenti (di cui fanno parte tanti altri soggetti oltre Askatasuna) hanno sottoscritto un patto di collaborazione per la coprogettazione del cortile e dello stabile, il Comune ha quindi riconosciuto quel luogo come bene comune, per le tante attività sociali e culturali che svolge a beneficio di un quartiere che ne riconosce il valore. E così, molte di più ne potrà svolgere e molte più persone potranno partecipare.
Contro chi sogna una politica di repressione e sgomberi, Torino ha dimostrato di essere fatta di un’altra materia e di avere una diversa maturità, riconoscendo che la vivacità di una grande città si nutre anche di controculture e di esperienze sociali alternative. I militanti di Askatasuna, per conto loro, in qualità di individui in questi anni sono sempre stati assicurati alla giustizia senza sconti, per ogni atto illecito commesso e accertato. Come ho detto in trasmissione da Massimo Giletti, io sono a fianco dei diritti sanciti dalla Costituzione, a partire dalla presunzione di innocenza e dalla libertà di riunione e manifestazione. Vedo, invece, la volontà politica di sventolare un teorema, usando Torino come cattivo esempio, per intimidire tutti e tutte coloro che contestano lo status quo. Per esempio, per bloccare sul nascere un nuovo potenziale movimento di opposizione al ponte sullo Stretto.
Il dl sicurezza non è che la traduzione in legge di questa intenzione repressiva. Blocco stradale punito con la reclusione da sei mesi a due anni, aggravante dei reati di violenza e resistenza se commessi “al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica”, rivolte negli istituti penitenziari inclusa la resistenza passiva punti con l’aumento delle pene. Un ritorno agli anni di piombo? Chi ha davvero studiato la storia ricorda che le bombe nelle piazze, sui treni, alle stazioni erano parte di una strategia: si chiamava strategia della tensione. Serviva a non far andare i comunisti al governo del Paese. Quella era l’eversione. Non lo è certo contestare l’ordine delle cose o un’opera votata dal Parlamento, strategica o meno che sia. Eppure, ho dovuto sentire da un riesumato Storace, che da giovane aderiva a movimenti che scendevano in piazza con il “ferro”, ancora accuse di eversione ai militanti di Askatasuna. Addirittura, mi è stata da lui rinfacciata l’immunità parlamentare. Esempio emblematico di una destra garantista solo con i colletti bianchi.
Ecco, Torino rischia di diventare capitale non dell’eversione, ma della repressione. Torino e la Val di Susa, assurta negli ultimi decenni a principale laboratorio repressivo dello Stato italiano. Con l’opera “di interesse strategico nazionale” si può piegare la legge, controllare i tempi e renderli “emergenziali”: i cantieri diventano fortini da presidiare con esercito e polizia. Tutti sull’attenti a sorvegliare un vuoto, visto che in oltre trent’anni nemmeno un metro di nuova ferrovia è stato realizzato. I 6,8 milioni di risarcimento chiesti dallo Stato a 28 militanti di Askatasuna – e graditi ad Aimi – sono il costo della militarizzazione di una valle. Come ha scritto recentemente Luigi Ferrajoli, il danno patrimoniale consistente nel costo delle indagini è un’assoluta novità e – se vale in questo caso – dovrebbe valere allora per qualunque reato, mentre il danno d’immagine alla Pubblica amministrazione è semplicemente indefinibile. Di quella cifra, i 4,1 milioni per “il ripristino dell’ordine pubblico” includono stanziamenti al personale per presidiare i luoghi 24 ore su 24 e addirittura il pagamento degli straordinari di quel personale.
Il Ministero dell’Interno ha alternato 205.988 unità nel 2020 e 266.451 nel 2021 (mentre a Torino la destra non perde occasione per dire che i quartieri periferici non sono sicuri anche per mancanza di controlli delle forze dell’ordine). Nel corso della prima udienza (ottobre 2022) la rappresentante dell’Avvocatura ha annunciato richiesta di risarcimento per i danni provocati agli agenti dall’esposizione ai gas lacrimogeni utilizzati per disperdere le manifestazioni. I gas che loro stessi hanno lanciato contro i manifestanti. Un rovesciamento totale. In Val Susa è cominciato è l’uso disinvolto dello strumento del foglio di via, a discrezione dell’autorità di polizia e non dei magistrati alla fine di un processo. Uno strumento unicamente repressivo che serve a una cosa: sradicare i cittadini attivi dalle proprie comunità, disgregandole. Oggi si applica un po’ a chiunque scenda in piazza: continuamente agli attivisti per il clima, che non sono mai violenti. Per esempio, a quelli poi portati in questura a Brescia, a quelle ragazze fatte denudare e costrette a fare piegamenti.
Il paradigma repressivo sperimentato contro il movimento No Tav è applicato su scala nazionale. Ormai non si contano gli episodi in cui sono condotte in Questura e trattenute in stato di fermo persone che hanno fornito i documenti. Un abuso, in base all’articolo 349 del Codice di procedura penale, che lo vieta.
Le denunce più frequenti (insieme al foglio di via previsto dal Codice antimafia): “radunata sediziosa”, “accensioni ed esplosioni pericolose”, “imbrattamento”, “concorso morale”, “manifestazione non preavvisata”. Quasi sempre le Procure le archiviano, perché “il fatto non sussiste”. In sostanza, le Questure intasano gli uffici dei PM con denunce insensate, che non servono ad aprire processi, ma solo a giustificare la notifica di misure di prevenzione contro chi protesta. Come la circolare con cui Piantedosi ha invitato tutte le prefetture a identificare delle “zone rosse” da cui tenere lontano persone ritenute “pericolose”, in base a valutazioni arbitrarie, per le quali non servono condanne penali.
Tutto questo ha a che fare con una spirale repressiva, non certo col dilagare di movimenti eversivi. Di sicuro appendersi a un balcone, fare un blocco stradale, tingere un fiume o un quadro senza danneggiarli non hanno nulla a che fare con l’eversione o con il terrorismo. Usare di nuovo la strategia della tensione, evocare gli anni di piombo mostrando l’immagine di un ragazzino che fa il gesto della P38, quindi, a cosa servirebbe? A niente, in termini di ordine pubblico. Di certo a tenere le opposizioni in silenzio per intimidire ancora di più. A crearsi l’agibilità per dissuadere un’intera generazione dallo scendere in piazza e dissentire su qualunque cosa, dalla crisi climatica al genocidio di Gaza. Credo, però, che tanti e tante siano stanchi di vivere in un mondo al contrario.
Un mondo in cui i più poveri e indifesi vengono – loro sì – cacciati come topi per essere presi e buttati nei nuovi centri dislocati in Albania (o in qualche CPR italiano, che molto meglio non è), o addirittura rispediti nei lager libici in pasto ai torturatori, mentre quei torturatori e trafficanti sono fatti accomodare su un volo di Stato e ricondotti comodamente a casa; un mondo in cui ci si accorda con quei trafficanti e con altri regimi autocratici per la corsa al gas, o si ingrassano le industrie di armamenti che riforniscono il governo israeliano, mentre gli attivisti che lo denunciano sono arrestati e posti in custodia cautelare con capi d’accusa da terroristi. Cara Arianna, la Presidente, tua sorella Giorgia Meloni non ha niente a che fare con Frodo, purtroppo. Ha liberato il boia e per questo è una sodale di Sauron. Gli altri sembreranno forse piccoli e male in arnese, ma continueranno a camminare, a lottare e a crescere.