Il balletto della premier

Meloni in bilico tra Orban e Ursula: la double face della premier

Da una parte mostra grande intesa con il premier ungherese sulla caccia ai migranti, dall’altra prova la carta riformista, su input di Draghi

Esteri - di David Romoli

6 Dicembre 2024 alle 14:30

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Non c’è stato accordo perfetto tra Viktor Orbàn e Giorgia Meloni nell’incontro di due giorni fa a palazzo Chigi. Non poteva esserci. I due continuano ad avere opinioni e opzioni opposte su un capitolo decisivo: l’Ucraina. Ma non è neppure detto che la premier italiana cercasse quell’intesa perfetta, che le sarebbe costata una brusca presa di distanza dall’establishment europeo, o da quel che ne resta.  Ha incassato un’intesa totale sull’immigrazione, con tanto di sostegno dell’intera destra nella strategia che sta cercando di ridisegnare, a partire dal protocollo con l’Albania, il pesce pilota dell’esternalizzazione totale dei centri di rimpatrio, e sul tema dolente dei Paesi da considerarsi sicuri. È cemento sufficiente per garantire un rapporto di solidarietà che permette a Giorgia Meloni di tenere un piede ben affondato nel terreno della destra europea all’offensiva.

Certo, il rapporto con il leader ungherese non è quello di qualche anno fa. Ma è il prezzo da pagare per tenere sottobraccio sia lui che Ursula von der Leyen, figure agli antipodi, che necessitano però entrambe di un canale di comunicazione con la pur detestata controparte. Ne ha bisogno Ursula, perché la destra avanza ovunque troppo impetuosamente per sperare di risolvere ogni problema relegandola nel lazzaretto degli appestati. Ne ha bisogno anche Orbàn, che passa per una specie di macchietta modello Salvini ma è in realtà un politico astuto che dell’Europa ha bisogno e dall’Europa è sempre riuscito a prendere moltissimo. Entrambi sono in fondo ben lieti di poter contare su una figura che è allo stesso tempo vicina all’establishment europeista del Ppe e ai ringhiosi populisti della destra estrema.

Quel ruolo, con tutta la rendita di posizione che si augura possa fruttarle, Giorgia Meloni lo ha cercato e voluto. Da quando si è insediata a palazzo Chigi si è mossa con una visione strategica in Europa molto più che in Italia. Circostanze difficilmente prevedibili possono aggiungere adesso a quella funzione nevralgica di “cerniera” tra Ppe e destra divisa nei suoi tre gruppi parlamentari, una postazione persino più centrale, in quanto premier del solo governo solido che ci sia oggi tra i principali Paesi europei. La locomotiva dell’Unione, che è da sempre franco-tedesca, è in panne e nulla autorizza a pensare che ripartirà presto, né sul fronte dell’economia né su quello della stabilità politica. I tentativi di Macron sono condannati comunque a restare traballanti ed effimeri. Le elezioni del 25 febbraio prossimo potrebbero condannare la Germania a una sorte identica: senza maggioranza, o con una maggioranza di grande coalizione risicatissima oppure con il necessario ingresso nella nuova maggioranza di una mina vagante come Sahra Wagenknecht. In tutti e tre i casi non ci sarebbe nel quadro politico tedesco nulla di stabile.

L’Italia è il terzo Paese dell’Unione per importanza ma è l’unico che dispone di un governo stabile e con prospettive di lungo periodo. Dunque la sua premier avrà molta più voce in capitolo del solito quando si tratterà di impostare una strategia per fronteggiare la crisi che sta montando e sulla quale si abbatterà probabilmente il ciclone Trump. Il ripresidente chiederà, anzi chiede già, un aumento drastico delle spese militari. Minaccia dazi ed è probabile che almeno in qualche misura dia seguito concreto alle parole più volte pronunciate in campagna elettorale. Pioverà dunque sul bagnato. Diluvierà anzi sul già fradicio.

L’Europa si troverà di fronte a un bivio: reagire, come la esorta a fare già da mesi Mario Draghi con una proposta traumatica che la premier italiana ha già fatto quasi per intero propria oppure affrontare la tempesta in ordine sparso e disgregarsi una volta per tutte. Sia come unica leader in grado di tenere aperto un canale di comunicazione tra le famiglie politiche europee del Centro e della Destra, sia come premier dell’unico Paese centrale dell’Unione non travolto dalla crisi politica, sia, infine, come possibile ponte tra la Ue e il prossimo inquilino della Casa Bianca, Giorgia Meloni si troverà in una postazione privilegiata per provare a incidere a fondo sui connotati futuri dell’Unione.

Potrà contare, del resto, sul paradosso che si sta dispiegando in questi giorni: Francia e Germania sono i Paesi che hanno imposto un nuovo patto di stabilità molto più rigido di quello proposto da Gentiloni e potenzialmente molto punitivo per l’Italia, che lo ha dovuto accettare per forza e senza alcun amore. Proprio Francia e Germania, però, sono ora i Paesi che più di ogni altro scontano il peso di quel Patto che hanno voluto flessibile in apparenza e rigido nella sostanza. La partita ha la sua controparte oscura: il rischio che la crisi economica dei due Paesi principali trascini a fondo anche l’Italia c’è e le previsioni Istat diffuse ieri, con previsione di crescita dimezzata per quest’anno lo confermano nel modo più doloroso.

Ma a differenza del passato stavolta il guaio non riguarda solo i Paesi da sempre nel mirino dei fautori dell’austerità. È generale e imporrà una reazione comune. Dietro la retorica della Nazione, Meloni si è sempre mossa, da quando è premier, molto più sul teatro internazionale che su quello italiano, dove in realtà riesce a fare ben poco. Le circostanze le offriranno probabilmente presto l’opportunità di giocare su quel tavolo la partita della sua intera vita politica.

6 Dicembre 2024

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