Il membro della Segreteria nazionale Cgil
Parla Christian Ferrari: “Con questo governo lo sciopero è diventato un crimine”
«È una parola messa al bando, come “rivolta”. Per fare ciò che hanno in mente, hanno bisogno di comandare e non possono accontentarsi di governare. Da qui, la torsione autoritaria e corporativa che punta a restringere strumenti e spazi della mediazione istituzionale, politica e sociale»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Christian Ferrari, membro della Segreteria nazionale della Cgil: 29 novembre. Sciopero generale. Uno sciopero “politico”, gridano a destra, con la stampa mainstream che fa da megafono.
Ci hanno accusato di essere pregiudiziali, dimenticando che abbiamo proclamato scioperi generali anche contro il governo Draghi, che veniva considerato infallibile per definizione, e prima ancora contro il Jobs Act del governo Renzi. La verità è un’altra: non era mai accaduto prima che il governo ci convocasse dopo aver già varato e trasmesso la manovra al Parlamento. Nonostante questo, abbiamo risposto positivamente – come sempre – alla convocazione tardiva a Palazzo Chigi, e abbiamo detto una cosa chiara: se c’è una reale volontà di cambiare in profondità la manovra siamo disponibili al confronto; se invece si conferma che il Parlamento potrà emendare un provvedimento che “cuba” 30 miliardi di euro, per appena 100 milioni o poco più, non possiamo che confermare lo sciopero generale del 29 novembre. Invece di rispondere, hanno preferito attaccare i sindacati che non si piegano ai loro diktat.
Nel lessico del politicamente corretto alcune parole sono bandite o usate come epiteti: sciopero è una di queste. L’altra è “rivolta”.
Non solo sono bandite, ma criminalizzate. Basti ricordare il ddl sicurezza, che prevede il carcere per i lavoratori che – per difendere il posto di lavoro – occupano una strada o una fabbrica. Oppure l’aggressione subita da Maurizio Landini per aver parlato di “rivolta sociale”, con addirittura l’accusa di aver commesso un reato. Siamo alla palese negazione dell’articolo 21 della Costituzione.
Stesso discorso vale per l’attacco ormai quotidiano al diritto di sciopero. Tutto questo si inserisce in una strategia ben precisa: dividere il campo tra un sindacato di governo e un sindacato di opposizione. Nella convinzione che non siano i lavoratori a scegliere da chi farsi rappresentare, e a votare gli accordi che li riguardano, ma sia Palazzo Chigi a decidere chi riconoscere, chi legittimare, e a chi negare qualsiasi ruolo di rappresentanza. Per fare quello che hanno in mente hanno bisogno di comandare e non possono accontentarsi di governare. Da qui, la torsione autoritaria e corporativa che punta a restringere tutti gli strumenti e gli spazi – non solo del conflitto – ma della mediazione istituzionale, politica e sociale. Le stesse controriforme istituzionali vanno in questa direzione: una verticalizzazione e una concentrazione del potere che non hanno precedenti in alcuna democrazia occidentale, e che rischiano di trasformarci in una vera e propria democratura, in cui le forze sociali, i corpi intermedi, gli stessi partiti finiranno per contare poco o nulla. Come meravigliarsi della nostra opposizione a questo disegno: il sindacato confederale coltiva l’obiettivo opposto, ossia far partecipare lavoratori e pensionati alla vita democratica del paese per incidere sulle politiche economiche e sociali che hanno ricadute immediate sulle loro vite.
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Due anni e più di governo delle destre. Quale bilancio, visto dalla Cgil?
Lavoratori e pensionati hanno subìto una perdita brutale del potere d’acquisto a causa di un’inflazione da profitti che è stata lasciata libera di consumarsi a loro danno. Si tagliano i salari pubblici, prevedendo risorse per i rinnovi contrattuali sufficienti a coprire appena 1/3 dell’inflazione, inviando così un pessimo segnale anche per i rinnovi del settore privato. Si colpisce il servizio sanitario nazionale, il cui finanziamento raggiungerà – nel 2027- il livello più basso mai registrato in rapporto al Pil. Si fa lo stesso con istruzione, ricerca, Regioni, Enti locali, non autosufficienza. Così lavoratori e pensionati, oltre all’inflazione, subiranno pure il ritorno delle politiche di austerità. Parliamo molto materialmente di soldi, che le persone dovranno tirare fuori di tasca propria, se lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni non saranno più in grado di garantire i servizi fondamentali. Solo per la spesa sanitaria privata i cittadini spendono 46 miliardi di euro all’anno: chi naturalmente può permetterselo, perché molti i soldi non li hanno, al punto che in 4,6 milioni rinunciano addirittura a curarsi. Inoltre, non si stanzia un solo euro per garantire la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, dove continua a consumarsi una strage quotidiana. Si continua ad alimentare una precarietà che da lavorativa, sempre più spesso diventa esistenziale, costringendo 100mila giovani a emigrare ogni anno. Si tagliano le risorse per il contrasto alla povertà e per le politiche abitative. Infine, si tradisce la promessa di cancellare la riforma Monti/Fornero, azzerando di fatto le già insufficienti forme di flessibilità in uscita, che riguarderanno appena lo 0,11% dei lavoratori dipendenti, con l’obiettivo – completamente ribaltato – di allungare (per ora in via volontaria) l’età lavorativa sino a 70 anni e oltre. E il cerchio si chiude: dopo aver consentito che l’inflazione da profitti decurtasse i salari; dopo aver colpito, con i tagli alla spesa, il cosiddetto “salario sociale” o indiretto; si colpisce anche quello differito (negli anni scorsi, la rivalutazione delle pensioni è stata tagliata per decine di miliardi di euro). Risultato: il Pil cresce dello zero virgola; la domanda interna ristagna; l’export arranca; la produzione industriale cala da 20 mesi consecutivi; precarietà, lavoro nero e sommerso colpiscono 6 milioni di lavoratrici e lavoratori; l’evasione fiscale e contributiva è a quota 82,4 miliardi. Il catalogo è questo. Altro che la realtà “parallela” decantata dalla maggioranza.
Lottare contro vecchie e nuove diseguaglianze, contro la precarizzazione dei lavori, ponendo al centro la grande e irrisolta “questione sociale”. Un’agenda politica progressista non dovrebbe partire da questa centralità?
Dobbiamo dire basta, una volta per tutte, alla svalutazione del lavoro e alla competizione di costo, applicate in Italia molto più che altrove (il paragone con i principali paesi europei sul livello dei salari è impietoso). Dobbiamo invece tornare a scommettere su quella che Sylos Labini definiva la “frusta salariale”: per invertire il segno della distribuzione primaria del reddito a favore della quota lavoro; e per costringere il sistema delle imprese a stare sul mercato abbandonando la “via bassa” e spingendo invece su investimenti e innovazione. C’è – in sostanza – un tema di “modello” di sviluppo, che affonda le sue radici negli anni 80, quando hanno esordito le ricette liberiste e di riduzione del perimetro pubblico. È stato un clamoroso errore storico, commesso anche dalla sinistra. Un errore che rischia di ripetersi, visto che – in Europa – abbiamo a che fare con un patto di stabilità riformato che archivia, come in una parentesi pandemica, la svolta del Next Generation Eu e del debito comune, e ci riporta indietro a quella stagione dell’austerità che tanti danni ha prodotto e che rischia di produrne anche di peggiori, in un tempo in cui l’Unione sta subendo un attacco esiziale al suo sistema produttivo e industriale, schiacciato com’è tra il neo protezionismo americano e il dirigismo economico cinese. C’è, invece, bisogno di un forte intervento pubblico che programmi, indirizzi e sostenga una profonda trasformazione della nostra struttura produttiva. A partire dalla transizione digitale e da quella energetica; e da una conversione ecologica di cui – evidentemente – il primo a non essere convinto è un governo che si dimostra – ogni giorno di più – negazionista anche sul cambiamento climatico, come conferma anche la postura assunta qualche giorno fa nella Cop29.
Cos’altro?
Bisogna battersi in Europa contro un’austerità suicida (come stiamo facendo, insieme alla Confederazione europea dei sindacati) e, intanto, in Italia, serve andare a prendere le risorse dove sono: profitti, extra profitti; rendite e grandi patrimoni, evasione fiscale e contributiva, una vera riforma basata su progressività ed equità fiscale. Si sta facendo il contrario: con la conferma della flat tax e la sua eventuale estensione, e continuando a ricorrere a condoni e a riaprire concordati preventivi che rappresentano un insulto ai contribuenti onesti. Non c’è alternativa alla mobilitazione, da portare avanti non solo per cambiare la manovra di bilancio, ma anche dopo, in vista della stagione referendaria della prossima primavera, quando avremo un’occasione storica: fermare definitivamente l’autonomia differenziata; cambiare la legislazione sul lavoro; dotare finalmente il nostro Paese di una legge civile sulla cittadinanza.
Il 2024 ci lascia un mondo in guerra, dall’Ucraina al Medio Oriente. E il 2025 inizierà con Donald Trump alla Casa Bianca. C’è da tremare?
Più che tremare, c’è – anche in questo caso – da mobilitarsi per costringere i governi ad ascoltare l’appello per la pace condiviso dalla grande maggioranza dei cittadini. E c’è da farlo anche in Italia, di fronte a un esecutivo che fa austerità su tutto, tranne che su un unico settore, che vede un incremento di risorse senza precedenti: le spese militari, che cresceranno di ben 35 miliardi di euro da qui al 2039. Diciamo no, senza se e senza ma, a chi – anche in Europa – vuole convertire la nostra economia, in un’economia di guerra. Si sta giocando con il fuoco, si sta scommettendo sull’escalation, senza rendersi conto della catastrofe cui stiamo andando incontro. Noi pensiamo che l’Ue debba piuttosto esercitare la funzione di forza pacifica e riequilibratrice, di ponte tra est e ovest, tra nord e sud del mondo, contribuendo non a incendiare i conflitti in corso, ma operando per risolverli, togliendo la parola alle armi e restituendola alla diplomazia e alla politica. Insieme a questo, l’Europa deve recuperare la sua anima sociale, di patria del welfare e dei diritti, e rimettere al centro delle nostre società: la piena e buona occupazione; un lavoro libero e dignitoso; un fisco progressivo e redistributivo, un welfare pubblico e universalistico in grado di curare le ferite del nostro tempo. Altrimenti finirà di nuovo preda del nazionalismo, che – puntualmente – imperversa in tempi di guerre e di crisi sociali. Come è accaduto, appunto, negli Stati Uniti.