L'attacco al giornale
Il bavaglio di Netanyahu ad Haaretz: “Mi criticate? Vi tolgo i soldi”
Un attacco frontale contro la stampa libera: Israele sembra sempre più una democratura. Netanyahu cerca di rimandare la testimonianza al processo contro di lui, ma il Tribunale si oppone: il 2 dicembre dovrà testimoniare
Esteri - di Umberto De Giovannangeli
Attacco a un giornale con la schiena dritta. Un giornale coraggioso, autorevole, che non fa sconti al potere politico. E al peggiore governo nella storia dello Stato ebraico: Netanyahu. “Un tentativo di mettere a tacere un giornale critico e indipendente”: il quotidiano Haaretz ha definito in questi termini la decisione del governo di Israele di sospendere qualsiasi tipo di pubblicità statale sul giornale e di bloccare tutti gli abbonamenti alla testata sottoscritti da funzionari e amministrativi. All’origine della misura, approvata ieri all’unanimità dal Consiglio dei ministri presieduto da Benyamin Netanyahu, ci sarebbe la copertura data dal quotidiano più antico di Israele della nuova fiammata del conflitto in Medio Oriente, divampata dopo gli assalti dei commando dell’organizzazione palestinese Hamas del 7 ottobre 2023.
Fondato nel 1919, di orientamento progressista e liberale, Haaretz ha sostenuto la necessità di indagare abusi commessi dalle forze armate di Israele sia nella Striscia di Gaza che in Libano.
Le ragioni del governo sono state esplicitate dal ministro della Comunicazione Shlomo Kar’i. «Non possiamo permettere – ha sostenuto il Ministro – che l’editore di un quotidiano riconosciuto chieda di imporre sanzioni contro lo Stato di Israele e supporti i suoi nemici nel pieno di una guerra e che sia poi da esso finanziato, mentre gli organismi internazionali minano la sua legittimità e il suo diritto all’autodifesa e adottano sanzioni contro di esso e i suoi dirigenti». Opposta la lettura data dal giornale, affidata anche a un editoriale del corrispondente diplomatico Jonathan Lis. “La decisione del governo” – si legge nell’articolo – “rischia di contribuire alla demolizione della democrazia israeliana”. “Come Putin, Erdogan e Orban, Netanyahu cerca di mettere a tacere un giornale critico e indipendente”. Nell’editoriale del quotidiano si legge infine: “Haaretz non indietreggerà e non si trasformerà in un opuscolo che pubblica messaggi approvati dal governo e dal suo capo”.
Nei confronti di Netanyahu la settimana scorsa è stato emesso un mandato di cattura della Corte penale internazionale (Cpi) per presunti crimini di guerra e contro l’umanità commessi a Gaza. In relazione al periodo compreso tra il 7 ottobre e il 20 maggio scorso, la procura dell’Aja contesta in particolare l’uso della fame come arma di conflitto, l’ostacolo all’assistenza umanitaria e gli attacchi “intenzionali” contro la popolazione civile. Haaretz è edito da Amos Schocken, imprenditore settantanovenne, contestato di recente per aver definito i militanti palestinesi “combattenti per la libertà”. La mannaia governativa cade nel giorno in cui Haaretz lancia un nuovo, possente j’accuse, contro Bibi.
“Il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato domenica un secondo ricorso presso la Corte distrettuale di Gerusalemme per ritardare la testimonianza nel suo processo penale, attualmente fissato per il 2 dicembre. Tramite i suoi avvocati, ha presentato una ‘richiesta breve, definitiva e limitata per evitare un grave danno alla sua difesa’. Questa volta, però, non cita i vincoli della guerra o il pericolo per la sua vita, ma piuttosto il fatto che è ricercato da un altro tribunale, la Corte penale internazionale dell’Aja, per crimini di guerra. Solo Netanyahu può usare un processo in corso contro di lui per eluderne un altro. L’appello formale, ragionato ed educato può confondere coloro che hanno visto il Primo ministro, solo un giorno prima, scagliarsi contro il tribunale, l’esercito, il servizio di sicurezza Shin Bet e la polizia israeliana. Netanyahu, che aveva convinto la Corte che non c’era alcun conflitto tra il suo status di imputato e il suo ruolo di Primo ministro, non mostra alcuna vergogna nell’utilizzare più volte le sue funzioni di Primo ministro per eludere i suoi obblighi di imputato. Non è meno imbarazzante usare il suo potere di Primo ministro per minacciare – direttamente o indirettamente – il procuratore capo del caso, il procuratore generale Gali Baharay-Miara. È evidente che la ‘muraglia cinese’ che aveva promesso per separare i suoi ruoli di imputato e Primo ministro è crollata. Non c’è dubbio che il Primo ministro Netanyahu sia subordinato all’imputato Netanyahu. Anche il più pessimista dei pessimisti non avrebbe mai immaginato che il governo di Netanyahu avrebbe lavorato per subordinare il sistema giudiziario che aveva osato giudicarlo. Netanyahu ha persino subordinato la guerra, in corso da oltre un anno, alle sue considerazioni politiche e legali. Cosa c’è di più per dimostrare che sta agendo per un palese conflitto di interessi del fatto che sta usando la guerra per ritardare la sua testimonianza? La pressione che Netanyahu sta sentendo a causa del ‘caso Feldstein’ e la paura che le sue fiamme si riversino su di lui sono alla base del suo ultimo attacco al sistema legale e al capo dello Shin Bet, Ronen Bar. Non può continuare così. La paura della reazione di Netanyahu o dei suoi seguaci – che minacciano di non onorare una decisione di inabilitazione, creando così una crisi costituzionale – non deve essere presa in considerazione. La permanenza di Netanyahu al potere significa la distruzione di tutti i meccanismi di governo. Ha violato l’accordo sul conflitto d’interessi che ha firmato come condizione per essere qualificato come Primo ministro, nonostante sia stato accusato di crimini. O lo Stato lo metterà fuori gioco, o lui metterà fuori gioco lo Stato. Il procuratore generale ha tutto ciò che serve per agire. È arrivato il momento”.
Il capo dell’opposizione israeliana Yair Lapid, nella riunione del gruppo parlamentare, ha chiesto se «il Premier sapesse che nel suo ufficio, le persone a lui più vicine, hanno ricevuto una grande quantità di denaro dai sostenitori di Hamas in Qatar». Lapid ha fatto riferimento a un’inchiesta di Haaretz secondo cui i due consiglieri più stretti di Netanyahu, Yonatan Orich e Shmulik Einhorn, sono stati coinvolti nella campagna per migliorare l’immagine del Qatar in vista dei Mondiali 2022. La campagna mirava a presentare il Qatar come un Paese “che aspira alla pace” nonostante il suo sostegno finanziario a Hamas. Inchieste scomode, di un quotidiano che non ha accettato di essere “arruolato”. Ieri, la procura di Gerusalemme ha espresso una forte opposizione alla richiesta del primo ministro Benjamin Netanyahu di rinviare la testimonianza nel processo a suo carico, previsto per il 2 dicembre. Il Premier ha dichiarato che non è pronto a testimoniare, sostenendo che la decisione della Corte dell’Aja di emettere un mandato di arresto contro di lui ha portato alla cancellazione di incontri preparatori con i suoi avvocati. Ha quindi chiesto un rinvio di 15 giorni.
La Procura, in una risposta presentata al Tribunale distrettuale di Gerusalemme, ha sottolineato che il periodo concesso per la preparazione del processo era sufficiente e ha affermato che non vi erano motivi validi per giustificare un cambiamento delle circostanze da quando il Tribunale aveva deciso, due settimane fa, di non consentire ulteriori rinvii. Nel documento presentato al Tribunale, la Procura ha sottolineato l’importanza di un processo legale rapido e continuo per mantenere la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario e garantire l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Di conseguenza, la procura ha chiesto al Tribunale di respingere la richiesta di rinvio e mantenere la data stabilita per l’inizio della testimonianza di Netanyahu. Non molto tempo fa, Haaretz definì quello attuale “un governo in cui i ministri fanno a gara a chi è più fascista”. Un governo che sta smantellando lo stato di diritto. Un governo guidato da un Premier sulla cui testa pende un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.
La posizione dell’Italia su Netanyahu
L’Italia deve “rispettare la giurisdizione” della Corte penale internazionale e arrestare il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu se dovesse venire in territorio italiano. Lo ha detto il ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Riyad al-Maliki, che, incontrando i giornalisti a margine dei Med Dialogues in corso a Roma, ha “chiesto al governo italiano di essere chiaro nel rispettare la decisione della Corte penale internazionale”. “Se non lo facesse applicherebbe un doppio standard nei confronti di Netanyahu”, ha aggiunto, affermando che al Primo ministro israeliano verrebbe riconosciuto “il diritto di abusare del diritto internazionale”.
L’Italia è tra i 120 paesi che riconoscono la Cpi, nata con lo Statuto di Roma. Dovrebbe essere in automatico che se Netanyahu venisse in Italia, in visita ufficiale o in privato, dovrebbe essere tratto in arresto e consegnato alla Corte dell’Aja. Dovrebbe, ma quando si parla del governo italiano il condizionale è d’obbligo. Un governo in cui uno dei vicepresidenti, Salvini, dichiara che Netanyahu è il “benvenuto in Italia”. E l’altro vicepresidente, e ministro degli Esteri, Tajani, se la cava così: “Nella prima sessione della ministeriale G7 ho detto che bisognava avere una posizione univoca sulla decisione della Cpi. Abbiamo parlato, vediamo se si potrà avere nel comunicato finale una parte dedicata a questo”. Lo ha dichiarato il titolare della Farnesina, in un punto stampa a Fiuggi a proposito del mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale contro il Premier israeliano. “Stiamo lavorando per trovare un accordo, i direttori politici stanno lavorando per trovare una posizione unica del G7 sulla questione”, ha aggiunto il titolare della Farnesina.
Ma l’Italia è un paese sovrano. Che riconosce la Cpi e dà seguito ai suoi pronunciamenti. Non è così, signor Ministro? A Paola Di Caro che lo intervista per il Corriere della Sera il vicepremier-ministro degli Esteri, risponde così: “Non è un problema immediato e reale, Non credo proprio che Netanyahu verrà in Italia o altrove, come non credo che alzare la tensione serva ad ottenere più facilmente la pace. Non si fermerà certo per la decisione della Corte penale internazionale”. Alla faccia della chiarezza.