Soffia il vento della reazione

Cosa sta succedendo alla democrazia: la vittoria di Trump la manda in macerie

Dall’America giunge la nuova mazzata alle istituzioni liberaldemocratiche: il sovranismo non è altro che una torsione autoritaria del modello occidentale che abbatte diritti e minoranze

Editoriali - di Michele Prospero

7 Novembre 2024 alle 18:30

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AP Photo/Alex Brandon – Associated Press / LaPresse
AP Photo/Alex Brandon – Associated Press / LaPresse

La reconquista della Casa Bianca sprigiona un significato storico ben più ampio di quello legato ad un normale avvicendamento degli inquilini alla presidenza. Per prenotare il gran rientro allo Studio Ovale, il vecchio imprenditore ha impostato una partita ad alto rischio la quale non contemplava altro esito dal suo personale trionfo.

Il conteggio delle schede ha attribuito una giustificazione al postulato iniziale della contesa: una battuta d’arresto del comandante in capo predestinato sarebbe stata il semplice frutto di un “voto illegale”. Ricalcando lo scenario bellicoso tipico di una condizione di guerra civile dovuta a un vuoto di potere, Trump ha negato, in nome della superiore legittimazione che sfiora la propria persona, la vigenza delle inviolabili regole del gioco. Il suffragio popolare, che ai suoi occhi non poteva che farlo prevalere, incarna una sovraordinata idea di legittimità che infilza le procedure scolpite in organi bilanciati chiamati a gestire i tempi della contendibilità dell’autorità. Brandendo lo schema oppositivo legalità-legittimità di ascendenza vetero-europea, ottenuta l’unzione salvifica, Trump reputa di aver condonato le molteplici accuse che lo avevano graffiato alla luce della lesione di fastidiose trafile costituzionali.

Oltre a un’amnistia, che lo affranca dalle cupe nebbie del passato, quando perse la testa dopo l’Election Day che l’aveva spodestato, Trump si riserva una mano libera nella decisione. In futuro ogni atto presidenziale controverso verrà ritenuto svincolato da limiti e contrappesi. L’affermazione del “Maga” anche al Senato e probabilmente alla Camera rappresenta la certificazione del disegno esplicito di un’autocrazia elettiva che si appresta a trasfigurare il volto più antico del costituzionalismo. La ribattezzata “democrazia sovrana”, che maltratta i diritti, rimpicciolisce i margini di autonomia, altera l’elastico equilibrio delle istituzioni, oramai non è un’anomalia di Budapest, di Roma e (forse) di una Parigi che ha appena sdoganato Le Pen. Il restringimento del ventaglio formale e valoriale delle repubbliche è non più una pura eccezione, bensì racchiude una norma che nella sua vischiosità è penetrata nel cuore stesso del potere imperiale.

La vittoria del tycoon, che nonostante una coreografia dal becero sapore patriarcale sfonda pure nel consenso femminile, ribadisce che persino negli Stati Uniti sono diventate anguste le opportunità estensive di un progressismo delle buone maniere, rinchiuso nella fortezza irrinunciabile delle libertà civili, rinserratosi nella invocazione del riconoscimento del merito entro i segmenti maggiormente creativi della new economy digitale e dell’informazione. Alla sinistra non è permesso di ridursi alla rappresentanza di chi per istruzione, professione, capitale sociale dispone già di strumenti adeguati al fine di difendersi dalle incertezze strutturali dei mercati. I meno scolarizzati, i più precari e vulnerabili dinanzi all’avanzata dell’intelligenza artificiale sono schivati alla stregua di stranieri che neppure comprendono la lingua raffinata delle dinamiche élite metropolitane.

Le elezioni americane, che portano sventolate suggestioni “dittatoriali” nel centro dell’Occidente, sono il termometro di uno smottamento avvenuto nella liberaldemocrazia in seguito alla caotica stagione della de-globalizzazione, avviata con la crisi del capitalismo divampata nel 2007. Successivamente al balzo della potenza cinese, con la sua forza espansiva raggiunta finanche in settori tecnologici cruciali, la competizione non può essere sostenuta con i medesimi prezzi vantaggiosi, e così l’età della delusione per la perdita di egemonia segna le credenze dell’America profonda.
La cosiddetta “status anxiety” corrobora il sentimento di smarrimento. La paura di una caduta accompagna la richiesta di protezione al cospetto della tangibile diminuzione di ruolo, alla ridimensionata capacità individuale di reggere l’urto della concorrenza in un’economia-mondo che appare piena di insidie.

Il ritorno dello Stato che viene promesso dalla destra (salvataggi e aiuti industriali, confini sigillati per frenare i migranti, mantra della sicurezza, mistica dei dazi, misure contro le delocalizzazioni) seduce fasce consistenti della cittadinanza. Il nullatenente, che diviene l’oggetto delle pratiche invasive di sorveglianza del neocapitalismo, vota nello stesso modo di Musk, il titolare della sovranità privata che lucra sul corpo e investe per la conquista dello spazio. Sotto il mantello ospitale di The Donald si rifugiano i bianchi evangelici, i quali temono un “great replacement” ad opera di etnie esterne confermatesi assai più prolifiche; le minoranze che si percepiscono comunque integrate rispetto agli ultimi venuti clandestini e non si scompongono di fronte all’annuncio di muri ed espulsioni; i lavoratori marginali usurati dalle nuove tecnologie e bisognosi di sussidi, i ricchi che traggono giovamento dalla flat tax.

Per qualche anno, l’emergenza sociale vide la comparsa di attraenti proposte politiche dal tono radicale (la performance del socialista Sanders nelle primarie dem, la conversione del Labour al verbo del “rosso” Corbyn), ma la supremazia nella ondata di celere ripiegamento nazionalista è stata agguantata dalla destra populista. La Brexit inglese, il primo successo di Trump, l’ascesa delle sigle post-fasciste in Italia, l’offensiva dell’estremismo in Germania e Francia, e adesso la rivincita del presidente dal ciuffo arancione hanno conferito un tratto regressivo alla fase storica della rottura delle fragili reti della mondializzazione.

Ovunque la destra si sbarazza agevolmente del messaggio liberal e del connesso mito di una guerra metafisica per la libertà (armi come veicolo di diffusione dei principi democratici), incapace di bloccare il massacro di Gaza, di amministrare con incisivi ritrovati diplomatici la frantumazione del quadrante post-sovietico, di progettare un ordine multipolare pacifico. Senza un rinnovato pensiero sul mondo, che la destra vorrebbe de-globalizzato, la sinistra è condannata all’irrilevanza. Eppure il sospiro autoritario che soffia un po’ dappertutto minaccia di far saltare il collante tra capitalismo e democrazia politica.

7 Novembre 2024

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