Le origini del voto
Perché Donald Trump ha stravinto le elezioni americane: il fattore (negativo) Harris-Biden, guerre, economia e immigrati
Esteri - di Carmine Di Niro
Donald Trump non si è limitato a vincere, il candidato del Partito Repubblica alla Casa Bianca ha letteralmente stravinto le elezioni negli Stati Uniti, definite “incerte” dai sondaggisti Usa alla vigilia del voto per i numeri che arrivavano dagli “Swing State”, gli Stati in bilico, e che invece hanno visto una valanga trumpiana abbattersi su Kamala Harris.
I risultati delle elezioni Usa
Donald Trump non ha solamente vinto negli Stati in bilico, Michigan (15 grandi elettori), Arizona (11 grandi elettori) Nevada (6 grandi elettori), North Carolina (16 grandi elettori) Georgia (16 grandi elettori), Wisconsin (10 grandi elettori) e Pennsylvania (19 grandi elettori), ma ha superato la vicepresidente Harris anche nel voto popolare.
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A spoglio ancora in corso il tycoon ha ottenuto 71 milioni di voti contro i 66 della candidata dei Democratici. Per Harris è un disastro di proporzioni incredibili: solamente quattro anni fa Joe Biden ottenne una vittoria larga con con più di 81 milioni di voti (51,31%), 7 milioni in più di Trump, vincendo in tutti gli Stati chiave, compresi Pennsylvania e Georgia. Tornando ancora più indietro, al 2016 in cui Trump vinse per la prima volta la corsa alla Casa Bianca, il tycoon vinse contro Hillary Clinton pur avendo preso tre milioni di voti in meno.
Trump ottiene anche la maggioranza in Senato: martedì si votava infatti per 32 seggi, di cui 23 in mano ai Democratici e 11 ai Repubblicani. Anche qui il GOP ha ribaltato la situazione attuale, in cui i Dem godevano di una risicatissima maggiorana di un voto, 51 a 49: in questo modo i trumpiani potranno approvare nomine alle varie cariche federali senza bisogno di trattare con i democratici.
Perché Trump ha vinto
Come motivare una vittoria così larga e schiacciante? Alla base sicuramente ci sono una serie di errori da parte del Partito Democratico, sia nella campagna elettorale che nella gestione del Paese negli ultimi quattro anni.
La staffetta Biden-Harris
I Dem pagano innanzitutto l’aver sostenuto e poi abbandonato come “un ferro vecchio” il presidente uscente Joe Biden: impossibile dimenticare come tutti i big del partito abbiano prima per mesi tacciato come “fake news” le voci sulla salute sempre più precaria dell’attuale inquilino della Casa Bianca, salvo poi costringerlo a ritirare la sua candidatura bis alla Casa Bianca a seguito del catastrofico primo confronto tv con Donald Trump.
Da lì la scelta di puntare dritti sulla sua vicepresidente Kamala Harris, senza passare da nuove primarie, che in quattro anni alla Casa Bianca non si era certamente fatta notare: al contrario Biden gli aveva assegnato il complicatissimo dossier legato all’immigrazione, tema su cui Trump e i Repubblicani l’hanno massacrata per mesi per la sua incapacità nel porre un freno ad un vero e proprio esodo dal confine sud degli States. È apparsa quindi tardiva agli occhi dell’elettorato la promessa di una “sigillatura” del confine messicano, non dissimile da quella voluta da Trump.
Una candidata che, alla prova dei fatti, si è rivelata troppo debole in diverse fasce di elettorato: i Democratici secondo i primi exit poll post-voto sono stati abbandonati dai latinos, hanno confermato le loro difficoltà nell’elettorato bianco non istruito e avrebbero perso presa anche tra gli elettori maschi di colore, più interessati alle questioni legate all’economia o alla sicurezza che ai diritti civili.
L’economia, l’immigrazione e le guerre
Ci sono poi i problemi legati ai quattro anni di presidenza Biden. Nonostante un andamento brillante dei principali indicatori economici, i Democratici pagano le difficoltà nel contrastare l’inflazione alta che ha eroso il potere d’acquisto degli americani.
Sulla politica estera il sostegno, anche economico, all’Ucraina di Volodymyr Zelensky, da tempo non è un fattore di consenso tra la popolazione, mentre la linea pro-Israele tenuta dall’amministrazione Biden-Harris ha portato in rotta di collisione l’elettorato di origini arabe e i Democrat, assieme all’ala più a sinistra del partito.
La ricetta di Trump
Dall’altra parte la ricetta presentata all’elettorato da Donald Trump era semplice quanto ideologicamente chiara: un programma all’insegna del protezionismo economico, la promessa di una guerra tariffaria a colpi di dazi contro Europa e Cina, la guerra all’immigrazione, al “pensiero woke” e ai diritti civili, già minati dalla Corte Suprema a trazione trumpiana con la cancellazione della Roe vs Wade del 1973, la celebre sentenza che garantiva a livello federale il diritto all’aborto negli Stati Uniti.
A questo va aggiunto il disimpegno americano nel mondo, da tradurre in due soluzioni. Da una parte la chiusura dei rubinetti degli aiuti economico-militari nei confronti dell’Ucraina di Volodymyr Zelensky: il governo di Kiev dovrà infatti probabilmente fare i conti con una amministrazione ben diversa da quella di Biden. Il tycoon ha più volte sostenuto di essere in grado di far finire rapidamente il conflitto scatenato nel febbraio del 2022 da Vladimir Putin con l’invasione delle sue truppe nella vicina Ucraina: il timore è quello di un accordo di pace “sponsorizzato” da Washington ma al ribasso, con una Ucraina destinata a una vasta amputazione territoriale nei confronti della Russia.
A poche migliaia di chilometri c’è il secondo fronte di disimpegno, il Medio Oriente. Qui Trump potrebbe consentire un sostanziale via libera al governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu: se Biden, con risultati a dir la verità scadenti, ha in parte cercato di limitare l’azione violenta dell’alleato, con Trump il rischio è di non porre più limiti ai propositi di vendetta di Tel Aviv dopo il massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas. A rischiare di più non sono solo i civili palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza, ma anche quelli che vivono nella Cisgiordania: è qui infatti che il governo Netanyahu intende scacciare la popolazione araba e realizzare il sogno di un “Grande Israele”.