Il dibattito
Le democrazie sono in crisi e regna l’arroganza: solo l’umanità può rovesciarla
Il leader del ‘68 dice bene: le democrazie sono in crisi perché sequestrate dalle élites e improntate all’ordine, piuttosto che alla libertà
Editoriali - di Giuseppe Sangiorgi
Adriana Zarri, nel suo saggio Teologia del quotidiano pone il problema così: “Diciamo la verità: se Mussolini non avesse restaurato la pena capitale non sarebbe stato un assolutista serio. I cosiddetti ‘governi forti’, così come le coscienze che, al vertice dei valori mettono l’ordine, anziché la libertà, tendono necessariamente alla pena di morte: essa è l’ultima rifinitura, il tocco finale, il fastigio di un organismo con i ‘nervi d’acciaio’ che non indulge a ‘femminee’ debolezze”.
Sull’Unità di sabato scorso, Mario Capanna ha replicato a una riflessione di Aldo Cazzullo sul tema della fragilità delle democrazie. Perché i governi dell’Occidente appaiono così incapaci e incerti nell’affrontare le grandi sfide – economiche, sociali, politiche – dei nostri giorni? Perché sono così prigionieri delle loro incertezze? La nostra parte di mondo resta la migliore, sostiene l’editorialista del Corriere della Sera, “ma se non le si dà gli strumenti per prendere le decisioni, affrontare i problemi delle persone e intervenire nelle crisi internazionali, la democrazia stessa è in pericolo”. Ribatte Capanna: andiamo al fondo del problema, “il fatto è che la democrazia rappresentativa da tempo è stata trasformata (e fatta regredire) in una realtà formale e astratta, dove si vota ogni tanto per eleggere chi farà finta di occuparsi dei nostri problemi mentre nei fatti a comandare, nella società dell’1 per cento, è la minoranza opulenta. Si è giunti così al trionfo della prepotenza – il primato del più forte – al posto dell’armonia, della giustizia e della pace da costruire fra le persone e i popoli”. Il trionfo della prepotenza al posto dell’armonia: è il vero punto, Capanna ha ragione. Ma allora, andiamo più a fondo ancora. Perché il primato della prepotenza, o dell’armonia, derivano a loro volta dalla scelta iniziale che pone la Zarri: che cosa mettiamo in testa alla scala dei valori, l’ordine o la libertà? Il resto deriva da questa scelta. Lo stesso problema può essere affrontato muovendo dall’esigenza dell’ordine, o da quella della libertà. Il problema è lo stesso, ma la soluzione sarà diversa.
Prendiamo il tema dei temi sotto i nostri occhi, la politica delle migrazioni. Il decisionismo dell’attuale Governo è perfettamente in linea con il paradigma dell’ordine. Paradigma dell’ordine, attenzione, che il Governo sta ponendo al Paese – anzi “alla Nazione” – come il riferimento generale della propria azione politica perché… l’Italia è un Paese di destra, come si va argomentando. Il decisionismo fa presa, appare risolutore. Il punto è che la coerenza interna dell’equazione ordine premessa, decisionismo = soluzione, non è sufficiente perché questa coerenza interna sia tale anche al suo esterno, nel rapporto col sistema dei diritti e con i principi di umanità di una società civile. È l’essenza del problema. Il Governo rivendica un corretto agire, dal punto di vista legale, sulla vicenda del centro di smistamento degli immigrati realizzato in Albania. Anche se fosse, quante volte il dovere è compiuto in maniera non conforme al dovere stesso, mentre un’azione formalmente non conforme al dovere è compiuta per realizzare un dovere di rispetto della dignità umana! Non sappiamo che ne pensi il nuovo ministro della cultura Alessandro Giuli, ma questo è un cardine della filosofia classica che il Governo dovrebbe interiorizzare.
Si dice: il rispetto della dignità genera la licenza, guardiamo le centinaia di migliaia di immigrati sbandati intorno a noi, possiamo continuare così? La semplificazione è suadente, ma falsa. Il fatto è che porre la libertà in cima alla scala dei valori, è decisamente più impegnativo che non mettervi l’ordine. Paga meno nell’immediato, rende tanto di più alla distanza per raggiungere quegli obiettivi di armonia, giustizia e pace sociale che pone Capanna. Ma richiede, appunto, una politica, che non può essere quella del contenimento/respingimento con i relativi, grotteschi slogan tipo blocco navale e viso dell’arme. Lo spiega Giuseppe De Rita: “Ci vuole una capacità di fare accoglienza senza l’idea che siamo buoni, che siamo ospitali, che facciamo del bene. Il salto di qualità è dare il senso che si tratta dal primo istante di un impegno istituzionale. Certamente l’accoglienza va combinata con le iniziative volte a rimuoverne le cause, gli accordi con i Paesi d’origine e di transito, la solidarietà europea, ma quando gli arrivi avvengono si innesta un meccanismo istituzionale. Il Paese cresce anche con queste persone, stiamo costruendo un’Italia nuova e lo facciamo anche in questo modo”.
Questo chiama in causa il tema della cittadinanza, con il non detto retrostante alle diverse posizioni dei partiti. “Le forze politiche – spiega di nuovo De Rita – sono attente soprattutto ai loro elettorati di riferimento. Se non ne fai parte vieni emarginato, a maggior ragione se non hai neppure il diritto di voto”. Ecco il punto, ecco lo strumento di partecipazione che si teme di porre nelle mani di quei nuovi cittadini che sono gli immigrati. Perché da quel momento le loro condizioni e necessità peseranno nelle urne elettorali. Portano lontano le diverse conseguenze secondo cosa si pone al vertice della scala dei valori, se l’ordine o la libertà. Non è solo la politica, sono diverse le concezioni della vita, le priorità, le sensibilità, si declina in modi diversi l’umanità. C’è il senso di umanità del presidente del Senato, che si preoccupa di come non separare i parlamentari dai loro animali domestici quando c’è seduta alle Camere. C’è il senso di umanità della Caritas, che si adopera a non separare i senza tetto dai loro amici a quattro zampe, impareggiabili compagni delle loro difficili esistenze.