La premier a Bruxelles
L’Europa è il Papeete della Meloni: la premier a Bruxelles è un pesce fuor d’acqua
La lettera mandata da Meloni a von der Leyen dimostra la sua incapacità di ricollocarsi in uno scenario cambiato rispetto a quando è salita al governo e fa fare una figuraccia a lei e all’Italia intera
Politica - di David Romoli
La sgangherata lettera inviata dalla premier alla presidente della Commissione europea dimostra una cosa sola: che Giorgia Meloni non ha ancora capito come porsi nei confronti dell’Europa in un quadro radicalmente cambiato rispetto a quello in cui si era mossa nel primo anno e mezzo di governo e nel quale ancora non si orienta. La lettera è stata una mossa sbagliata da più punti di vista. La premier ha confuso due rapporti diversi, uno, il Rule of Law, decisamente rilevante perché proveniente dalla Commissione stessa, sia pure quella uscente, l’altro, il report sull’informazione del Consorzio Media Freedom Rapid Response, molto meno incisivo. Tutt’al più un primo passo sulla strada, ancora molto lunga, di una vera e propria critica ufficiale da parte delle istituzioni europee.
Così facendo, però, Giorgia Meloni ha regalato al report del Consorzio un’importanza e un’ufficialità che altrimenti non avrebbe potuto vantare. Allo stesso tempo ha glissato sulla parte centrale del Rule of Law, che riguarda casomai la riforma Nordio e il capitolo giustizia. Non se ne sarebbe accorto nessuno a Bruxelles, o avrebbe fatto finta di non accorgersene, senza una lettera ufficiale che invece, tacendo sul grosso degli appunti europei, è suonata allo stesso tempo come troppo reattiva e reticente. Per completare l’opera la premier si è messa a citare le testate “stakeholders”, peraltro sbagliandole ed evidentemente senza rendersi conto che, a prescindere dalla sue intenzioni, l’elenco sarebbe suonato come una lista di proscrizione in fieri. La presidente italiana procede a tentoni, cede a reazioni sopra le righe, finisce per rendere importante un report che in sé non lo sarebbe stato perché si muove al buio. Non sa quale sarà la disposizione della nuova Commissione nei suoi confronti dopo la decisione di non votare per l’alleata, o ex alleata, Ursula von der Leyen.
Anche Bruxelles, d’altra parte, guarda alla premier italiana non più come a una leader di certissimo europeismo, quale la considerava von der Leyen sino al mancato voto a favore della sua rielezione, ma come esponente di una destra ancora a metà strada tra i sovranisti messi al bando e gli europeisti. Va da sé che una mossa azzardata e poco ragionevole come la lettera in questione fa pendere la bilancia del giudizio più sul versante sovranista che su quello di un inossidabile europeismo conservatore. Qualcosa si chiarirà quando si concluderà la partita del commissario italiano. Il nome verrà fatto dall’Italia solo il 31 agosto e sarà Raffaele Fitto, salvo dinieghi del ministro che mira a deleghe come la concorrenza o l’economia, che non sono proprio fuori discussione ma neppure a portata di mano, e non è detto che si accontenti di quel che la presidente è per ora disposta a concedere, la coesione, il bilancio, forse la difesa ma in quel caso affidata a Elisabetta, Belloni e non a Fitto.
Ma lo stesso nodo del “commissario pesante”, diventato rapidamente un tormentone come quasi tutto nella politica italiana, è a propria volta un segnale. Quel che davvero importa è con quale disposizione, con quanta disponibilità ed elasticità, la Commissione affronterà i problemi di bilancio dell’Italia, quali condizioni porrà per accogliere la probabilissima richiesta di portare da 4 a 7 anni il Piano di rientro a medio termine dopo l’avvio della procedura per deficit eccessivo. Dopo quella che è stata a tutti gli effetti una rottura brusca la premier italiana deve ora recuperare i rapporti, in circostanze molto diverse da quelle che prevedeva, per gestire “con l’Europa” e non “con l’Europa contro” una fase molto più che delicata. La lettera spedita due giorni fa è stata un passo nella direzione sbagliata.