Le grane della premier
L’Europa ignora Meloni: da outsider a epurata, no alla vicepresidenza
A dispetto delle sue rassicurazioni, il voto contro von der Leyen ha isolato la premier, messa in isolamento a pari dei Patrioti di Orban e Salvini
Politica - di David Romoli
Avanti come se nulla fosse, ripetendo che non è successo niente: tante volte, a forza di ripeterle, le cose diventano vere. Il voto contro la presidente von der Leyen non avrà ripercussioni negative per l’Italia, parola di innumerevoli voci nella maggioranza. Intanto però il miraggio di una vicepresidenza esecutiva della Commissione, obiettivo perseguito con tenacia prima del voto fatale, è svanito nel nulla. Il posto di inviato Nato per il sud, una invenzione italiana pensata per un italiano, è finito nelle mani dello spagnolo Javier Colomina: forse Rutte, quando subentrerà a Stoltenberg come segretario generale dell’Alleanza, rimedierà all’offesa che ha mandato fuori dai gangheri Chigi, forse invece no. Tajani strepita da giorni e fa il possibile. Non è detto che basti.
Nella ripartizione delle commissioni, decisa ieri, il Ppe ha fatto la parte del leone famelico ed Ecr ha avuto le sue tre presidenze, segno che viene considerata impresentabile ma fino a un certo punto, vicina al cordone sanitario che soffoca i Patrioti, rimasti a becco completamente asciutto anche nelle vicepresidenze, ma sia pur di un pelo al di fuori di quel muro di cinta anti sovranisti. Fi, che del Ppe è parte eminente, però non ha ottenuto nemmeno una presidenza e anzi ha perso quella che aveva nella scorsa legislatura europea. Martusciello, il capogruppo, si consola cantando vittoria per le due delegazioni assegnate agli azzurri italiani. Chi si accontenta…
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I segnali sono chiari: lo strappo pesa e continuerà a pesare, persino a livello atlantico dove la fedeltà della premier è indiscussa, non solo nella ripartizione dei posti ma soprattutto nelle trattative sul bilancio che sarebbero state difficili comunque ma ora lo saranno di più. Del resto se Meloni ha sperato sino all’ultimo di riuscire a votare per l’amica Ursula qualche motivo solido evidentemente c’era. La foglia di fico che permetterà all’Europa di vantare una posizione priva di ogni spirito fazioso e all’Italia di dichiarare vittoria comunque sarà quel commissario importante che toccherà all’Italia, Coesione, Industria o Competitività e che le sarebbe toccato comunque trattandosi di Paese fondatore e terzo per importanza. Ma quali deleghe sostanzieranno la facciata scintillante è tutto da vedersi. Non è un caso se Fitto, il prescelto, informa neppure troppo discretamente che se le deleghe non saranno all’altezza lui resterà a Roma.
Sul fronte interno risuona la stessa musica. La divisione in Europa non scalfirà neppure di striscio la compattezza della maggioranza. Anche questo lo ripetono tutti, ma proprio tutti e se si allude a un fragoroso crollo di maggioranza e governo hanno anche ragione. Però all’improvviso Giorgia ha tirato il freno a mano sul premierato tanto per lasciarsi aperta la possibilità di rinviare il referendum a dopo le elezioni politiche, ove mai paresse opportuno. Del resto il monito rivolto dal vicepresidente dei senatori FdI Speranzon agli alleati due giorni fa non è che lasciasse molto spazio alle interpretazioni. Se si richiamano gli alleati al “rispetto del programma” significa che qualche dubbio sui rispettosi c’è e in questo caso si scrive programma ma si legge “premierato”. Con la Lega sul sentiero di guerra molto più di quanto non fosse prima delle elezioni europee, con la famiglia Berlusconi in fermento e tentata dal provare a riprendere direttamente le redini della politica per piegarla agli interessi aziendali ci vuole ottimismo per essere certi della fedeltà degli alleati quando in ballo c’è l’arma che li ridurrebbe all’impotenza, perché anche questo è il premierato.
Che la premier provi a far finta di niente, insomma, rientra nel repertorio della politica. Ma la realtà è opposta: rispetto allo scenario di un mese e mezzo fa, poche settimane sul calendario, un’eternità con l’orologio della politica, è cambiato proprio tutto. Un po’ per gli esiti della europee, un po’ la per reazione imprevista e molto forte dei partiti in flessione ma non sconfitti, molto per la prospettiva di una possibile presidenza Trump, il quadro è oggi totalmente diverso. È quello di una guerra totale tra l’establishment e i sovranisti, esemplificata dalla decisione dell’Europa di boicottare e quasi impedire la conferenza informale sugli Esteri organizzata dalla presidenza di turno ungherese per punire la stessa Ungheria di una missione diplomatica che in realtà, come Stato, era nel suo pieno diritto svolgere. Un gesto letteralmente senza precedenti. In questa guerra, la presenza nel governo italiano di Salvini, uno dei principali oggetti del bando europeo, e il rifiuto della premier di schierarsi apertamente contro gli ex alleati sovranisti bastano e avanzano per rendere quel governo oggetto di sospetto e diffidenza: sorvegliato speciale a tempo indeterminato. E all’interno dei confini nazionali, la convivenza difficile in quello stesso governo delle forze che si combattono in Europa e in Occidente è garanzia certa di turbolenza e crescente instabilità.