Smentito il Corriere
Altro che statista e sovranistra, Meloni isola l’Italia in Europa e rivela se stessa
A dispetto della propaganda di via Solferino, che l'ha paragonata alla Thatcher, la premier ha visto crollare il suo castello di balle. E ora le firme del giornale, non paghe, lisciano il pelo al golpista Trump
Editoriali - di Michele Prospero

Letta ci ha provato fino all’ultimo a convincere Giorgia Meloni ad infrangere il cordone sanitario eretto dai socialisti contro di lei con un voto a favore della riconferma di Ursula. La categoria di estremismo politico, largamente brandita dai partiti europei, nel Belpaese viene sbeffeggiata. Quotidianamente Repubblica fornisce alla presidente del Consiglio un certificato di buona condotta per attestare la bontà del felice percorso che “separa un’estrema destra anti-sistema da un’esponente conservatrice”. E invece il soccorso nero alla baronessa tedesca è saltato. La Fiamma non ha alcuna intenzione di mettersi all’opera come “un caposaldo conservatore” convertitosi al lessico liberale e quindi disposto a “rafforzare l’ala destra dei Popolari”.
La leggenda che Giorgia sia il “cigno per l’Europa del futuro” (formula del Corriere della sera), e che con il suo “realismo togliattiano” si collochi agli antipodi rispetto a Orban o Le Pen, sfuma nell’aula di Strasburgo rivelando la miseria della stampa terzista. Il cicaleccio per cui la donna-madre-cristiana sarebbe una risorsa per edificare “un ante-murale rispetto agli estremisti tedeschi, loro sì una minaccia” si dilegua per la sua assoluta inconsistenza analitica. Il lasciapassare che l’élite domestica ha accordato alla classe dirigente di colle Oppio, condonando la sua matrice ideologica immacolata alla luce delle opportunistiche adesioni ai riti bellici dell’atlantismo, rimane comunque in dote a Meloni, che però resta in attesa di una svolta oltreoceano – la vittoria di Trump – capace di conferire uno smalto più fresco all’internazionale sovranista.
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Il cerottone sull’orecchio del tycoon – ulteriore omaggio trumpiano a Mussolini –, esibito quale tangibile indizio di un corpo in fondo inviolabile perché protetto direttamente dal Signore, rende al momento scontate le presidenziali di novembre. La rioccupazione della Casa Bianca da parte dell’assalitore del Campidoglio ha indotto il metapartito americano attivo in Italia ad aggiustare il tiro. Un recente articolo di Paolo Mieli ha il pregio di indicare, senza tante perifrasi, le prospettive dell’occidente nel medio periodo. Il linguaggio di guerra vi scorre pervasivo e la penna, rapita dall’estasi di chi desidera regolare i conti una volta per tutte con la Cina, lascia evaporare qualunque pur labile mediazione politica.
È con Xi Jinping, assicura l’editorialista, che prima o poi “si arriverà alla sfida finale” per attribuire le esatte gerarchie nell’ordine mondiale. Che uno sbocco diverso dal riscontro delle bombe non sia per Mieli immaginabile, lo si evince dal sentimento di dispiacere davanti all’ipotesi che Pechino risolva l’affare Formosa “senza sparare un colpo se le cose vanno come stanno andando”. L’eventualità che una spinosa questione di ricomposizione territoriale si dipani grazie alla soluzione diplomatica dovrebbe rallegrare qualsiasi osservatore. Tuttavia il Corriere si mostra stizzito giacché “la riconquista di Taiwan” rischia di diventare una faccenda sbrigata senza neppure un ragionevole spargimento di sangue.
La nobile statistica delle perdite umane sul campo non aumenta poiché – si lamenta Mieli – regna ovunque una renitenza al pericolo di morte. Cresce perciò il timore che “quando scoccherà l’ora di Taiwan” nessuno della vecchia Europa sarà al fronte pronto per l’intrepido sacrificio nella “partita del secolo”. Il conflitto in Ucraina ha definitivamente svelato “di che pasta è fatta l’Europa”, con i suoi popoli codardi. Una terra stanca, antieroica, rammollita, nella quale “nessuno vorrà più saperne di combattimenti, missili, stragi”, merita l’oblio. Le responsabilità di tale deriva ricadono pure su Biden, che – afferma lo storico – è apparso “eccessivamente prudente nell’inviare armi a Zelensky”. Ma la colpa delle cancellerie europee è ben peggiore, ed è quella di avvilupparsi in “chiacchiere, rinvii e scarsa disponibilità a spendere in nuove armi”.
Secondo la firma del Corriere, la guerra è ormai una pratica imminente. Pechino, Mosca e Teheran bramano solo il caos, sognano “una guerra civile che travolga gli Stati Uniti”. Per questo, in una ricognizione con tratti invero caricaturali, egli asserisce che le tre capitali dell’Asse del terrore “se il colpo di Crooks fosse andato a segno, avrebbero avuto di che gioirne”. Il quadro fosco si conclude con una rampogna sulla debolezza dell’occidente, che da anni si trova “sotto scacco di Cina, Russia e Iran”, cioè di attori in ascesa che “fanno proseliti a man bassa nel cosiddetto sud del mondo”. La convergenza, rinsaldatasi dopo i fatti di Gaza, tra Russia, Cina, Iran e ribattezzato “sud globale” (India, Brasile, Sudafrica, variegato universo islamico) non suscita altro pensiero che un inasprimento dell’istinto militare.
Con simili scenari di guerra permanente, il Corriere si sposta di peso a rimorchio di Trump, ritenuto soltanto a parole “l’incognita più grande”. Nemico principale, pienamente condiviso dal magnate e fallito golpista, è infatti proprio il gigante cinese: a detta di Mieli, un novello generatore del male che “nello stesso mondo atlantico” avrebbe già con spregiudicatezza assoldato “personalità che si sono messe al suo servizio”. Visto che Pechino ad oggi non ha prenotato bagni di sangue, e gioca la carta delle tecnologie e del mercato, tocca alla grande potenza in declino reagire preventivamente alla sua defenestrazione e imporre che l’Europa sfili obbediente al seguito dell’esercito a stelle e strisce.
In una logica di divisione del lavoro, mentre gli Stati Uniti si contendono il primato nel globo evocando il sacro duello col celeste impero, all’Europa spetta darsi da fare nello smascheramento dei nemici interni e nella costruzione di una efficace industria bellica in grado di rintuzzare le velleità espansionistiche di Mosca. Ogni politica ideata per un governo plurale delle odierne emergenze planetarie (pace, clima, limitatezza delle materie prime, ambiente, migrazioni) si dissolve, annichilita in una totalizzante mistica guerresca. Il piccolo occidente, sempre più ristretto ad una ridotta tenuta insieme dalle lontane radici giudaico-cristiane, deve affilare le armi per contrastare manu militari i protagonisti di un assetto multipolare. Sulla scia di “The Donald” e della sua crociata d’oriente, in autunno anche Giorgia tornerà utile al metapartito americano che pretende lo scalpo dell’Europa politica.