Boxe
Aziz Abbes Mouhiidine, alle Olimpiadi di Parigi nel nome del padre: la storia e la promessa del Muhammad Alì campano
La storia del peso massimo di Mercato San Severino, capitano della Nazionale italiana ai Giochi in Francia. L'infanzia a Mercato San Severino, la palestra dei fratelli Moffa, il padre che gli fece conoscere Muhammad Alì. Gli incontri dal 26 luglio all'11 agosto
News - di Antonio Lamorte
Ogni volta lo stesso rito. Lei, la fotografia del marito e il Corano del marito anche se lei prega un altro Dio. Lei soltanto davanti allo schermo. Prima e dopo tutte le telefonate che volete, amiche e parenti e tutto il resto appresso, ma durante l’incontro, già qualche momento prima della campanella: nessuno, nessun altro. Soltanto lei e quelle sensazioni forti, una tensione altissima, l’orgoglio per come lo vede danzare e colpire. Emilia Vitaglione non ha mai vietato al figlio di combattere, non si è mai messa di traverso alla passione e al talento, ma cosa volete, una madre resta una madre, e la prima preghiera è sempre affinché il ragazzo non si faccia male, inshallah. Perché è questo che succede con la boxe: ci si fa male, si prendono i colpi, a prenderne troppi ci possono essere conseguenze serie, si può scivolare verso l’encefalopatia traumatica cronica – la famigerata demenza del pugile. E però: come danza quel ragazzo, come esce e colpisce, schiva e rientra, scarta e affonda con uno stile che dissimula per più di un momento la violenza dei colpi di un peso massimo, che lo fa sembrare più leggero di quello che è, che può catturare gli occhi anche di chi di pugilato non ci capisce proprio niente.
È con quel suo stile eccentrico e agile, aerobico e sfrontato, i calzettoni fosforescenti ben alti per richiamare l’attenzione, con la sua scelta di tempo e il suo ritmo che Aziz Abbes Mouhiidine è diventato Campione d’Europa e per due volte vice Campione del Mondo. È con questa reputazione e consapevolezza che è diventato il ragazzo al quale tutti chiedono l’Oro, una medaglia per entrare nei libri di storia. Alla Nowt Targ Arena di Cracovia, luglio 2023, aveva cominciato a sorridere da dietro il paradenti già alla fine del primo round della semifinale con Mateusz Bereznicki. E a ripetere a voce neanche troppo bassa: “Andiamo a Parigi, ci pensi? Ci stiamo andando davvero”. E si sentiva ancora più leggero, ripresa dopo ripresa, fino alla campanella finale. Pass per le Olimpiadi staccato. E lo ha ripetuto ad alta voce in faccia alla telecamera: “Papà andiamo a Parigi!”.
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Casa, pianeta Olimpiadi
All’inaugurazione c’erano tutti quanti. Familiari, amici, conoscenti. Gennaro e Gianluigi Moffa avevano combattuto, karate e kickboxing. Due lauree in scienze politiche e scienze aziendali. E due vite che stavano andando in tutt’altra direzione. Avevano cominciato ad allenarsi alla Juvenilia del professor Sessa e avevano continuato con il maestro Carmelo Malleo. A fine anni novanta avevano trovato questa palazzina nel quartiere Sant’Antonio a Mercato San Severino, Comune in provincia di Salerno di circa 20mila abitanti famoso per il castello a tre cinte che domina dalla collinetta, terra di pelletterie e del pomodoro San Marzano. A un piano di quel condominio un negozio di informatica, a un altro un’agenzia pubblicitaria, uffici. I fratelli Moffa ci hanno aperto una palestra, si sono laureati in scienze motorie e management dello sport.
All’inaugurazione dell’Olympic Planet, a settembre 1998, c’erano anche Emilia e Abdullah Marco. Si erano conosciuti sul posto di lavoro. Lei di Mercato di San Saverino, lui di Casablanca. Era arrivato in Italia a fine anni ‘80 con una borsa di studio, ingegnere. “Casablanca è tale e quale a Napoli”, gli avevano detto e lui, dopo anni al Nord, aveva deciso di trasferirsi al Sud, non proprio a Napoli ma comunque in Campania. “Era un bellissimo ragazzo, parlava cinque lingue e quando apriva la bocca non era per dire stupidaggini, mi hanno colpito la sua intelligenza e la sua educazione, la dolcezza che usava nel rivolgersi”. I flussi di migranti dal Marocco sono cominciati negli anni ’60, dapprima in forma individuale e quindi in forma familiare. Si sono intensificati negli anni ‘80 in seguito a un forte indebitamento che aveva colpito il Paese nordafricano. La disoccupazione è schizzata in alto, difficile trovare lavoro anche per i laureati. Ancora oggi quella marocchina è la terza comunità di immigrati in Italia: quasi 400mila persone al gennaio 2023.
“Immagina una trentina di anni fa: una ragazza del paese con questo ragazzo marocchino, extracomunitario, musulmano … Diciamo pure che ho fatto parlare. A lui scivolava tutto addosso, diceva: ‘Dai modo alle persone di capire’. Non se la prendeva mai. Ero io quella più fumantina, che rispondeva a tono”. Emilia, cognata di Gennaro, all’inaugurazione era andata con il pancione. Aziz in arabo vuol dire “caro”, Abbes era il nome del nonno paterno. “Anche se in Marocco non si usa, resta una forma di rispetto per la famiglia di mio marito”. Emilia era al nono mese di gravidanza.
Non è soltanto un film
Se la ricorda ancora oggi quella volta, il padre sul divano che lo chiama. “Abbes, vieni, ti faccio vedere una cosa”. Lui era soltanto un ragazzino. “Stava vedendo Alì, il film su Muhammad Alì con Will Smith. È stato amore a prima vista. L’interpretazione, la corsa, gli allenamenti, il confronto con gli avversari dentro e fuori dal ring, la carriera bloccata dalla squalifica perché si era rifiutato di andare in guerra in Vietnam. E poi è ritornato, nonostante tutto, lì capisci che è una storia incredibile. Tutto questo il karate e la kickboxing non me l’avevano dato: non mi avevano dato Muhammad Alì, mio padre lo amava”. Aziz Abbes Mouhiidine a 17 anni ha dovuto fare una scelta perché era arrivato in nazionale sia nel karate che nella kickboxing che nella boxe.
All’inizio alla Olympic Planet non c’era nemmeno il pugilato. “Ma non poteva mancare – spiega Gennaro Moffa – nel mondo delle arti marziali se il karate è l’Oriente, il pugilato è l’Occidente. Lo conoscevamo per quello che serviva alla kickboxing, lo seguivamo. Abbiamo preso le qualifiche tecniche e lo abbiamo inserito. In questo percorso ci siamo affiancati al maestro Domenico Brillantino”. Detto Mimmo, Brillantino è stato il decano dell’Excelsior di Marcianise, in provincia di Caserta, terra di pugili, riconosciuta tra le migliori società d’Italia, l’unica ad aver portato due pugili a una stessa edizione delle Olimpiadi. Brillantino è stato il maestro di Angelo Musone, Clemente Russo e Vincenzo Mangiacapre, è morto nel 2018. “Ci ha trasferito tanto sia sul piano sportivo, tecnico e tattico, che sul lato umano”.
Emilia Vitaglione aveva cominciato a portare il figlio in palestra a quattro anni. “Era iperattivo, così si stancava”. Per tutti i bambini lo stesso percorso: attività motoria di base e alfabetizzazione agli sport da combattimento. “Si è sempre impegnato al massimo, ha sempre avuto una grandissima forza mentale che ha portato sul tatami e sul ring. Dall’adolescenza ha imparato a gestire l’ansia e a mettere nel match le giuste dosi di adrenalina e lucidità mentale”, spiega Gennaro Moffa. “È sempre stato tenace e voglioso, è l’atleta che ogni allenatore vorrebbe allenare. Dico che per noi con lui è tutto facile anche se poi dobbiamo comunque trovare il modo di spronarlo, di dargli altre aspettative e obiettivi”, aggiunge Gianluigi Moffa. Entrambi concordano sul fatto che Mouhiidine avrebbe potuto avere percorsi notevoli anche nel karate o nella kickboxing. Già aveva ottenuto titoli importanti ma non poteva, per il livello cui era arrivato, continuare ad allenarsi in tre discipline diverse. La boxe, alla fine: perché piaceva al padre, per Muhammad Alì, per il sogno di partecipare alle Olimpiadi.
“Si può dire che il karate mi ha dato tutto tecnicamente: footwork, timing, distanza e tantissima esperienza. Quando ho cominciato con l’attività agonistica da pugile avevo 12 anni, ho fatto i campionati italiani dopo pochi match però avevo già 300 match di karate e 100 di kickboxing”. Al suo primo campionato italiano, nel 2012, la sorpresa del padre che si fece trovare a Rimini. “Domani c’è la finale, devi diventare campione italiano”. E così è stato. “Non mi riempiva di complimenti. È sempre stato felicissimo che facessi pugilato ma non è mai stato pressante. ‘Bravo, l’hai fatto per te stesso’, mi diceva. Mi ha sempre insegnato l’umiltà prima di tutto”.
Il capitano dell’Italia
Aziz Abbes Mouhiidine è un peso massimo che si muove come un peso medio. È alto un metro e 90, guardia destra che non disdegna di cambiare più volte negli incontri, può portare fino a 40 colpi diretti in sei secondi. È arrivato la prima volta al Centro Federale di Santa Maria degli Angeli ad Assisi a 14 anni, è un atleta delle Fiamme Oro, il corpo sportivo della Polizia di Stato. Abdullah Marco non è riuscito a vederlo danzare a Erevan, in Armenia, nel 2022 quando Enmanuel Reye Pla non lo vedeva e non lo prendeva mai in una finale dell’Europeo a senso unico, 5-0. E non lo ha visto recriminare per il verdetto di Belgrado nel 2021, quando una giuria sensibile al palmarés del mito cubano Julio La Cruz Peralta (cinque volte campione del mondo, due ori olimpici) lo condannò all’argento Mondiale. Ancora più netto il disappunto ai Mondiali di Tashkent nel 2023, contro il russo Muslim Gadzhimagomedov, premiato per split decision in un risultato che aveva raccolto l’indignazione perfino del Presidente della Federazione Pugilistica Italiana (FPI) Flavio D’Ambrosi.
Abdullah Marco non è riuscito a vedere l’oro del figlio ai giochi del Mediterraneo, ai Campionati dell’Unione Europea, al torneo Mohammed VI a Marrakech, nel suo Marocco, 5-0 questa volta proprio ai danni di La Cruz. Abdullah Marco è morto nel 2017, per un tumore. Il figlio aveva 19 anni. “Prima di lasciarmi mi disse queste parole: ‘Ora sei tu l’uomo di casa, quando ti sentirai solo toccati il petto per tre volte e capirai che sono lì al tuo fianco’”. E un’ultima cosa: “Ricordati la promessa che abbiamo’”. Le Olimpiadi, la medaglia d’oro. “È solo quella la medaglia che mi può valorizzare. Se dovessi farcela mi piacerebbe portarla anche in Marocco, i Mouhiidine mi hanno sempre seguito, la famiglia è rimasta unita”. Non si nasconde, al momento è secondo nel ranking dell’International Boxing Association.
A Parigi sarà il capitano della Nazionale azzurra, una spedizione di otto pugili con Angela Carini, Salvatore Cavallaro, Sirine Charaabi, Diego Lenzi, Alessia Mesiano, Giordana Sorrentino e Irma Testa. “La squadra più forte di sempre”, secondo il Presidente del CONI Giovanni Malagò. Cavallaro, Lenzi e Mouhiidine avranno anche il compito di riscattare la nazionale maschile dalla débâcle di Tokyo, dove si qualificarono quattro pugili donne e nessun uomo, non succedeva dal 1920. È stato quello il momento più delicato della carriera di Mouhiidine, quando la madre intervenne con una lettera che fu pubblicata da Boxeringweb a difesa del figlio.
“È volato a Londra per le qualificazioni e ci ha provato. Ero davanti alla Tv, emozionata come raramente mi è capitato. Ho visto un guerriero che combatteva senza armi. Ha vinto con forza di volontà e coraggio, ma era l’ombra del pugile di prima. Nuova la preparazione, il direttore tecnico e il preparatore atletico. Non andava più come una volta. A giugno ha partecipato ai Giochi Europei e si è fermato davanti al russo senza ottenere la medaglia. Quando l’ho visto in televisione il mio cuore voleva morire. Non era più il pugile di sempre, non aveva più le sue movenze. A settembre al Campionato del Mondo in Russia è uscito al primo incontro, tutta la squadra italiana ha perso di brutto”. Un disappunto condiviso dalla madre di Cavallaro, da allora gli organismi tecnici della Nazionale sono stati rinnovati. Mouhiidine per recuperare da quella delusione partì per il Marocco.
Avremo sempre Parigi
Gennaro Moffa è l’ombra del nipote: è lui che gli scioglie le spalle prima di ogni incontro, lui all’angolo con il direttore tecnico dell’Italia Emanuele Renzini. Dal 2020 è collaboratore fisso della Nazionale dopo essere stato per anni tecnico collaboratore. “L’obiettivo è fare un buon risultato a Parigi e passare professionista, riunificare le cinture prima nei cruiser e quindi nei pesi massimi”. Del team faranno parte naturalmente i fratelli Moffa, Gennaro lo ha già accompagnato per sparring di altissimo livello con pugili del calibro di Mairis Briedis ed Anthony Joshua. “Al movimento professionistico potrei dare visibilità e vittorie sui palcoscenici internazionali”. Quello che manca a un movimento comunque in crescita negli ultimi anni.
Prima però c’è da rappresentare l’Italia ai Giochi: 16 i pesi massimi in gara. La Cruz ci sarà, Gadzhimagomedov no. “Un titolo mondiale professionista passa, può cambiare dopo qualche tempo. L’oro olimpico nessuno te lo può togliere, resta nei libri di storia. Chi fa parte di questa squadra vuole portare medaglie all’Italia, siamo orgogliosi di rappresentare la Nazione”. Anche se c’è chi storce il naso. “Sto avendo problemi di razzismo più ora che da bambino. Sui social c’è chi scrive con ironia come il mio sia un nome tipicamente italiano o chi mi chiama mezzosangue. Mio padre mi ha sempre insegnato a non rispondere, una sorta di menefreghismo. Rappresento l’Italia ai livelli più alti in tutto il mondo”. Più italiano di così. Anche questo è questa Nazionale, con l’argento Mondiale Siirine Chaarabi nata in Tunisia ma cresciuta a San Prisco, in provincia di Caserta, da quando era una neonata, ha avuto la cittadinanza soltanto a 18 anni. “Il momento più brutto è stato dopo gli attentati dell’11 settembre – ricorda Vitaglione – , si sentiva proprio il vociare della gente nei negozi, quelli davanti al bar che ti squadravano. Mio figlio non mi raccontava mai niente di quello che succedeva a scuola ma una volta venni a sapere che una maestra lesse il suo nome sul registro e gli chiese: ‘Ma mi capisci quando parlo?’. E mio figlio: ‘Professoressa, se parlate italiano sì’”.
Emilia Vitaglione volerà anche lei a Parigi: ha deciso di rompere il rito dei match del figlio. “È doveroso, non succede tutti i giorni una cosa del genere. Anche se per me ogni vittoria è anche amara. Ci fosse stato mio marito sarebbe stato tutto diverso. Per lui che era arrivato da un altro Paese, che aveva studiato e lavorato in Italia da straniero, costruendo una famiglia, ogni vittoria sarebbe stata doppia. Sarebbe venuto anche lui a Parigi”. Aziz Abbes Mohuidiine ha mantenuto la prima parte della sua promessa. “Ci sono tante volte in cui lo sento proprio: lo sento che mi parla in arabo e, anche se io non lo parlo, lo capisco. Per me è una presenza reale, com’è successo sul ring alle qualificazioni. ‘Stiamo andando alle Olimpiadi papà, ci stiamo andando davvero!’. Sembrava un film”. Avranno sempre Parigi.