Vince lo status quo
Giustizia: altro che riforma e rivoluzione, quella di Nordio è un testacoda
L’abuso d’ufficio, formalmente abolito, che nella sostanza rimane. L’interrogatorio preventivo alla portata di pochissimi indagati, il divieto d’appello per i pm valido in rari casi: è solo fumo negli occhi
Editoriali - di Valerio Spigarelli
Taglia il traguardo la “riforma Nordio” che contiene una manciata di norme in astratto condivisibili, in pratica assai meno. Partiamo dall’abrogazione dell’abuso di ufficio. Si elimina la norma di cui all’art.323 del codice penale con l’intenzione di vaccinare dalla “paura della firma” i pubblici amministratori. Al riguardo i fautori della riforma sottolineano che le condanne per abuso di ufficio sono pochissime, il che è vero, e che in realtà le indagini che si aprono per questo reato servono ad individuare altre fattispecie più gravi. Del resto, sono proprio i sostenitori del mantenimento della fattispecie, cioè le Procure e l’Anm, spalleggiati dal Pd (anche se gli amministratori locali di questo partito non paiono molto convinti della linea ufficiale) e i Cinque Stelle, a definire l’abuso di ufficio quale “reato spia” di ben altre magagne.
Insomma, chi lo voleva eliminare insisteva a dire che era una norma ben poco effettiva, e chi lo voleva mantenere gli dava involontariamente ragione sottolineando che degli abusi di ufficio alle procure importa ben poco ma importa di poter aprire indagini strumentali alla ricerca di altri reati. Inutile spiegare a questi ultimi, ed ai loro corifei transitati dalla Procure in Parlamento, che in questa maniera si legittima un utilizzo improprio del potere di indagine, che secondo il codice non serve per andare alla ricerca di reati ma serve per far luce su quelli per cui si indaga in base ad una notizia criminis ben delineata. Ciò premesso, qualcuno, tra gli altri un luminare del diritto penale come Tullio Padovani, aveva avvertito che eliminando questa disposizione si sarebbe creato un vuoto di tutela per i cittadini di fronte alle possibili angherie della pubblica amministrazione e che questo esponeva al rischio della riespansione di altre norme, come il peculato. Previsione azzeccata in pieno se è vero che all’abrogazione dell’abuso di ufficio è corrisposta anche la reintroduzione del peculato per distrazione. Non solo, a sentire le dichiarazioni dell’On. Buongiorno sarebbero allo studio altre norme di carattere penale destinate a garantire i cittadini dalle prevaricazioni dei pubblici amministratori.
Insomma, siamo alle solite, norme manifesto della rivoluzione liberale della giustizia intestate a Nordio subito accompagnate da segnali rassicuranti alle Procure per bocca di qualcun altro.
Peggio ancora per ciò che concerne la custodia cautelare. Qui si introducono due novità di rilievo: l’interrogatorio preventivo degli indagati prima della emissione di un provvedimento cautelare e la competenza collegiale sulle ordinanze di custodia in carcere. Ora, ad analizzare per bene la prima questione ci si accorge che, in realtà, l’ interrogatorio preventivo riguarderà una piccolissima fetta di indagati giacché l’elenco dei reati per cui non varrà la novità è estesissimo. Si va dall’onnipresente divieto per mafia e terrorismo, all’omicidio, ai reati predatori, alle violenze sessuali, ai reati sull’immigrazione, fino ai maltrattamenti in famiglia, stalking ed altro ancora. Tutti reati esclusi dalla norma. In più la norma non varrà quando il pm invocherà il pericolo di inquinamento probatorio o quello di fuga. Insomma, per i reati e per i motivi per cui si va in galera più facilmente la riforma non riforma nulla. Anche in questo caso strilli liberali in pubblico ma trattamento di favore, in nome del doppio binario processuale, per i desiderata delle Procure.
Discorso diverso per il “collegio della cattura”, cioè per l’affidamento ad un collegio composto da tre giudici delle indagini preliminari l’emissione dei provvedimenti di custodia cautelare in carcere oggi decisi da un singolo giudice. “Tre is megl che uan” canticchiano giulivi i riformatori orecchiando uno spot di trenta anni fa. Ora, a parte il fatto che questa collegialità andrebbe tarata meglio, visto che si prevede che nel caso di competenza collegiale l’interrogatorio potrà essere svolto da uno solo dei membri del collegio, il che è già significativo; resta comunque il fatto che in questo modo il provvedimento cautelare getterà una pesante ipoteca per lo sviluppo futuro dell’esito del processo e potrebbe preludere alla eliminazione del controllo successivo da parte del tribunale della libertà così come oggi previsto. Se a metterti in prigione è un tribunale composto da tre magistrati che senso ha far rivalutare la questione, pochi giorni dopo, da un altro collegio di eguale dimensione? Quesito malizioso che i riformatori non si sono posti ma che già viene avanzato da qualche procuratore della Repubblica che sa di avere orecchie molto attente alle sue esigenze all’interno del governo.
Si rischia, insomma, lo stesso testa coda della faccenda dell’abuso di ufficio. Senza dimenticare che la decisione di un collegio, davanti al quale la conoscenza degli atti da parte della difesa sarà condizionata dal poco tempo a disposizione per studiarli, rischia di ipotecare negativamente il futuro giudizio. Insomma, il gioco non vale la candela. Veniamo poi al divieto di appello per i pm nel caso di proscioglimento per i reati che vengono giudicati davanti al giudice monocratico. Anche qui è bene essere chiari: di appelli del pm in casi similari se ne contano ogni anno più o meno quanti sono gli scudetti vinti – ahimè – dalla AS.Roma nel corso della sua gloriosa storia. Ergo la riforma pesta l’acqua nel mortaio. Diverso sarebbe stato il caso in cui il divieto fosse stato esteso a tutti i reati, anche a quelli giudicati dai tribunali in composizione collegiale. Ma anche qui i riformatori hanno versato il loro consueto obolo alle Procure e ne è uscito fuori il solito belato.
Del resto, le ragioni profonde di una simile riforma – cioè, il rispetto sostanziale del principio per il quale per poter condannare un cittadino è necessario uno standard probatorio, quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che per definizione non può essere raggiunto nel caso in cui si succedano una assoluzione prima ed una condanna poi nella stessa vicenda – se vale per i fatti meno significativi vale ancor di più per quelli gravi. Insomma, capovolgendo il luogo comune che piace tanto alla sinistra giudiziaria, se sei accusato di aver rubato al supermercato l’assoluzione conta tantissimo, se sei accusato di omicidio non conta nulla. Il che, a voler essere rigorosi, è un perfetto esempio di ragionamento illogico: un paralogismo normativo bello e buono. Il fatto è che per fare le riforme ci vuole coraggio e chi non ce l’ha non se lo può dare. Vedi il caso della parziale abrogazione di una norma introdotta dalla legge Cartabia che ha costretto gli avvocati italiani a rincorrere i propri clienti per fargli eleggere domicilio per depositare un atto di appello o un ricorso per cassazione. Norma deterrente delle impugnazioni, incredibilmente, giustificata dal fatto che i fascicoli penali sono tenuti da cani, per cui le cancellerie non trovano gli atti che già esistono con i quali gli imputati hanno già eletto il domicilio, e quindi commettono migliaia di errori di notifica in fase di appello che fanno allungare i tempi dei processi.
In breve, una norma che onera l’imputato di un atto spesso inutile per fargli pagare l’inefficienza burocratica dell’amministrazione. Questo a non voler dar retta all’opinione di molti magistrati, anche di Cassazione, per i quali il tutto in realtà si giustificava perché solo in questa maniera si poteva verificare che l’impugnazione fosse realmente voluta dall’imputato e non solo dal suo prezzolato avvocato per interessi di bottega. Un preclaro esempio della idea non proprio commendevole del ruolo dell’avvocato largamente diffusa nella magistratura italiana. Ebbene, anche qui i riformatori si accontentano di poco. Eliminano infatti la bruttura nel caso della difesa fiduciaria ma la lasciano per i difensori di ufficio. La lasciano, cioè, proprio per la fascia più debole degli imputati e, paradossalmente, proprio quelli per i quali i difensori possono avere maggiori difficoltà di rintraccio; vedi il caso di coloro che non hanno una dimora fissa, oppure gli immigrati per lavoro che fanno ritorno ciclicamente in patria.
Bene, per costoro la bruttura rimane ed il motivo è sempre la deterrenza delle impugnazioni, visto che le difese di ufficio da noi sono la maggioranza assoluta. Alla fine dei conti le novità positive di questa riformicchia si riducono alla maggior specificazione del reato di traffico di influenze ed al rafforzamento del divieto di acquisizione delle comunicazioni tra indagato e difensore: un po’ poco per l’inaugurazione di una “nuova era” per la giustizia del paese, come enfaticamente dichiarato dai sostenitori. Peraltro, in un paese che vede senza scandalizzarsi i vergognosi numeri dei suicidi in carcere, il coraggio vero, la svolta epocale, sarebbe, oggi, subito, pronunciare le parole amnistia e indulto, ma questo, state sicuri, non succederà.