Il ricordo dell'Olocausto
Cosa è il Giorno della Memoria, l’olocausto non è l’unico genocidio della storia
La Shoah ha cambiato la biopolitica e aperto una nuova era del diritto umanitario, ma non è l’unico genocidio della storia. Pretendersi vittime di serie A non autorizza nuovi stermini
Editoriali - di Massimo Donini
È trascorsa la Giornata della Memoria. Quella che raccontano i quotidiani e i media, descritta nei discorsi di politici e rappresentanti di associazioni ebraiche, non riesce più a restituirci il senso di questo evento. Si chiedano perché.
Immagino di scrivere per la generazione Z, facendo tabula rasa (ma solo per un momento) della sommatoria delle celebrazioni degli anni passati che rendono retorico un certo modo di ricordare. Le nuove generazioni sono quelle che più hanno bisogno di farlo, perché è compito di ogni generazione ripensare, e anche riscrivere il passato, senza cancellarlo.
Chi non lo fa è perduto, perché sarà in balia dei racconti altrui, e solo se si riappropria della verità storica, quella che è tale per lei/lui, per il suo tempo, può veramente crescere e capire dove si trova, e vedere il cammino lungo il quale procedere. Saranno altri, diversamente, a decidere tutto al suo posto.
Dunque, la generazione Z deve sapere che la storia del popolo ebraico è unica nel mondo, che nessun popolo è stato perseguitato o escluso come questo per millenni. Esso ha quindi sviluppato una sensibilità straordinaria alle vicende di discriminazione, prima ancora che ai tentativi di annientamento o di sterminio. Con la Giornata della Memoria, tuttavia, non stiamo commemorando tutto ciò (anche se non va mai dimenticato questo retroterra storico e, forse, metafisico dell’ebreo errante, dopo la Diaspora).
L’oggetto del ricordo, oggi regolato per atto normativo dell’Onu e disciplinato anche dalla legislazione europea e nazionale, riguarda la Shoah come simbolo e sintesi massima della volontà e organizzazione genocida da parte del regime nazista durante la seconda Guerra mondiale: il tentativo di eliminare fisicamente tutti gli ebrei di Europa, e culturalmente la loro storia e identità, e la attuazione di tale intento attraverso il programma di sterminio nei lager che portò all’eccidio di oltre sei milioni di persone.
Un progetto del quale il fascismo italiano si rese compartecipe, complice. Oggi è più difficile visitare lo Jad Vashem a Gerusalemme, il Museo del Ricordo dell’Olocausto, ciò che costituisce una esperienza unica di immersione nel male.
Chi ha avuto questa possibilità non può essere uscito intatto da quell’avvenimento che ha lo scopo di segnarti per sempre. Dalla scoperta dei lager nazisti è iniziato quello che mi è sempre sembrato un vero big bang politico, giuridico e culturale, ma direi meglio coscienziale: l’inizio di una espansione mondiale del diritto internazionale, delle Carte dei diritti, del ripudio di ogni razzismo e discriminazione fondata su analoghi motivi, del rifiuto di ogni biopolitica discriminatoria in nome di un diverso biodiritto, per la tutela delle vittime, di tutte le vittime, dagli atti di sterminio, siano questi crimini contro l’umanità, di guerra o di genocidio in senso stretto.
Questa presa di coscienza appartiene a ogni generazione, a ogni persona: e non è scontata. La storia personale di ognuno di noi è attraversata da questa chiamata: liberi in verità di non rispondere, ma meno sicuri contro il ripetersi di questi eventi se non lo facciamo.
L’importanza della Giornata della Memoria consiste dunque nella riappropriazione culturale e politica di un patto affinché l’Olocausto non accada mai più. Ogni generazione può sottoscrivere quel patto solo riappropriandosi nuovamente del passato. Ma deve farlo vivendolo nel contesto del tempo in cui si trova. Ed è proprio questo il punto centrale del nostro discorso.
Il tempo odierno ci impedisce di ricordare senza guardare al presente, cioè ci vieta di compiere una operazione astratta di isolamento concettuale di quell’evento, come se fosse pensabile al di fuori della storia. Non è così. Non lo è mai stato e non può esserlo dopo il 7 ottobre.
Non solo la Shoah deve essere concepita nel quadro della storia pregressa, ma è necessariamente oggetto di una attualizzazione storica. Ciò comporta variazioni nel modo di viverla e sentirla.
Rispetto alla storia pregressa occorre dire che l’Olocausto non è stato il più grave genocidio della storia, in termini di risultato.
Ma ha avuto una sua celebrazione retrospettiva così grande da superare l’indifferenza colpevole che invece circonda, per esempio, il genocidio dei nativi delle Americhe (ritenuti esseri “inferiori”) dopo l’occupazione europea durante secoli di sterminio, un risultato probabilmente incomparabile, in termini di evento, rispetto alla concentrazione temporale del genocidio nazista di oltre 6 milioni di ebrei.
È così che sul piano delle intenzioni, delle modalità attuative, dell’organizzazione sterminatrice tedesca, la scoperta dei lager ha costituito un evento storico idealtipico in termini di presa di coscienza collettiva. Tutto ciò ha esaltato anche la valorizzazione delle vittime. Secondo un’opinione diffusa le vittime dell’Olocausto, per la loro storia, per la loro dignità, appaiono superiori a quella dei pellirosse o degli indios. Sono vittime di serie A.
Mentre lo affermo già immagino le reazioni di qualche lettore, ma non posso esimermi dal descrivere anche provocatoriamente questa realtà percepita. Ebbene, anche rispetto al presente molti continuano a pensare che esistano vittime di serie A e vittime di serie B. È per questo che 1400 vittime israeliane di Hamas spiegano di fatto una reazione che ha già provocato 26.000 morti non di Hamas, ma di cittadini palestinesi, a Gaza.
A questo dato va aggiunta una considerazione fondamentale sulla responsabilità individuale e su quella collettiva. La responsabilità penale per il genocidio, o per crimini contro l’umanità, è individuale, non di entità statali. È stato così per Norimberga, vale per Hamas, come per Israele.
L’intervento della Corte penale internazionale dell’Aia, al riguardo, può riguardare solo responsabilità individuali. Viceversa, l’intervento della Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, attivato dal Sudafrica contro Israele, riguarda la prevenzione del genocidio da parte degli Stati firmatari della Convenzione contro tale crimine (art. 8-9 Conv. di New York del 9 dicembre 1948).
Invece, la colpa collettiva, morale o politica, è cosa diversa, ma di più difficile accertamento. Come non si può dire che i tedeschi fossero tutti nazisti, così non si può affermare che i fascisti siano stati tutti autori o correi di genocidio. Né in termini penali, né tantomeno secondo criteri di colpa collettiva. Allo stesso modo in cui la colpa giuridica penale resta individuale (“personale”), anche lo statuto di vittima resta individuale. Le vittime dell’Olocausto non sono gli ebrei o gli israeliani di oggi!
I quali non sono dunque “per sempre vittime” nella nostra coscienza, come se esistesse uno statuto sovratemporale di vittima collettiva corrispondente a una colpa storica collettiva. Si cela qui un equivoco della psicologia sociale molto rilevante. Dunque, se questi discendenti delle vittime dell’Olocausto diventano autori di crimini contro l’umanità, non hanno giustificanti: hanno, semmai, qualche aggravante, perché si fanno arbitrariamente scudo delle colpe storiche altrui per guadagnare, in forma transitiva, spazi inaccettabili di immunità.
A questo punto si comincia a dipanare razionalmente il groviglio dei sentimenti che ci avvolgono. In che cosa è cambiata la Giornata della Memoria? È successo qualcosa che ci fa vedere con maggior chiarezza la differenza tra colpa individuale e collettiva e tra vittime individuali e storiche e processi di vittimizzazione simbolica trasferiti sui discendenti a distanza di ottant’anni dai fatti.
Quel qualcosa ci consente anche di evitare di costruire vittime di serie A e di serie B. La tutela dei diritti fondamentali impedisce queste operazioni politiche: ed è una tutela che è nata giuridicamente proprio dopo Norimberga, dopo la Shoah, primo effetto di quel big bang generatosi dopo il secondo conflitto mondiale.
L’orizzonte delle vittime si allarga e si universalizza, invece di circoscriversi in un territorio o discriminare alcuni suoi abitanti. Le vittime di allora non devono diventare nuovamente vittime di obiettivi genocidari oggi. Ma la tutela dei diritti fondamentali estende a tutte la protezione.
Prima o poi avvertiremo come una provincia l’assolutizzazione dell’Olocausto, se posto a raffronto con altri genocidi della storia, meno gravi sul piano dell’intenzionalità e dell’organizzazione, dello scopo di realizzare un genocidio-fine, anziché un genocidio-mezzo, ma meno “compresi”, “celebrati” e idealizzati.
La Giornata della Memoria appare meno ecumenica adesso, al cospetto di uno Stato che ha dimostrato dal 1948 di violare sistematicamente i diritti fondamentali di un popolo del quale ha occupato il territorio per volontà e decisione risarcitoria internazionale, e che pretende, ad un tempo, di rappresentare per sempre la figura di vittima collettiva e ideale della storia, facendo di questa verità indiscutibile (v. quanto detto sopra) un passepartout.
È dunque con una diversa consapevolezza che, oggi, abbiamo – ciascuno a suo modo, nella vita privata – ricordato l’Olocausto. Chi da studioso delle leggi internazionali e del diritto penale sa che è dopo Norimberga che è esplosa l’evoluzione ininterrotta dei diritti fondamentali, compresi quelli delle vittime, non può più oggi distinguere tra di loro le più importanti. Se possono esistere autori più importanti o pericolosi, non ci sono vittime più rilevanti di altre. Questo non vogliamo, da oggi, dimenticarlo mai più.