La guerra contro i migranti
I pescatori tunisini sono corsari, non pirati: quattro arresti del Gip di Agrigento
Derubavano i barconi del motore e i migranti di soldi e cellulari: quattro arresti del Gip di Agrigento, ma chi ha insegnato a quegli uomini della Tunisia che la vita di un migrante non vale niente?
Cronaca - di Luca Casarini

La Procura di Agrigento, con il via libera del Giudice per le indagini preliminari, ha fatto arrestare quattro pescatori tunisini con un’accusa che mai era stata utilizzata nel contesto delle rotte migratorie nel Mediterraneo: pirateria. Articoli 81, 110 del codice penale e 1135 del Codice della navigazione. Ad accusare i quattro sono alcuni migranti, giunti a Lampedusa dopo essere stati attaccati e depredati di tutto ciò che avevano mentre tentavano di raggiungere dal mare le coste italiane, a bordo dei soliti barchini di ferro.
Sono stati rapinati del motore, cosa che costringe alla deriva una imbarcazione piena di gente in mare aperto, e anche dei pochi soldi che avevano e dell’unico strumento in loro possesso davvero importante per salvarsi la vita: il telefonino. I migranti hanno riconosciuto gli indagati, descrivendo con dovizia di particolari il loro ruolo, e indicando senza alcun dubbio i nomi dei pescherecci coinvolti in questo infame atto di guerra tra poveri. Perché, al di là delle responsabilità che sarà un processo ad attribuire, di certo mettere in pericolo la vita di persone che fuggono in mare, per rubare qualche motore fuoribordo e un po’ di telefoni, altro non può essere che atto di chi non ha quasi niente contro chi non ha niente. E in Tunisia la povertà sta mordendo più del sole di agosto.
Questa brutta storia però offre molti spunti di riflessione. Il primo è che non esiste la “classe dei buoni” e quella dei “cattivi” nelle vicende umane. Come in guerra, e questo termine è il più indicato per descrivere ciò che accade nel Mediterraneo contro chi migra, gli ordini dei Generali non sono mai “alla lettera”. Spesso l’accanimento e la violenza peggiore contro il nemico, vengono inflitti dai soldati semplici, quelli che respirano il sangue della trincea e del corpo a corpo. In Tunisia si è visto ad esempio anche durante le recenti criminali deportazioni nel deserto di donne, uomini e bambini, in parte ad opera dei militari sotto il comando del presidente Saied.
Ma in parte anche dovute a vere e proprie cacciate dai luoghi abitati organizzate dalla popolazione, che con machete, coltelli e bastoni, hanno costretto gli ultimi degli ultimi, africani neri, a fuggire persino dalle baracche in cui trovavano un po’ di riparo. Quando, dopo le denunce e le pressioni, i militari di Saied e la Mezzaluna Rossa hanno in parte fatto marcia indietro, e sono andati a riprendersi i profughi abbandonati nella terra di nessuno al confine con la Libia e a quello con l’Algeria, era stata disposta dal governo una sistemazione provvisoria per i migranti all’interno di alcuni edifici scolastici. Se uno legge il comunicato indignato dei sindacati dei lavoratori dell’istruzione, che protestano chiedendo l’allontanamento dei profughi, si può fare un’idea di quale sia il clima in Tunisia.
È un fatto noto da millenni: grano e zizzania crescono insieme, sulla stessa terra. E, come ci ricorda Zerocalcare, più miseria, degrado e povertà la fanno da padrone, e più è facile che chi semina zizzania, e non grano, possa godere di raccolti straordinari. Ma chi è che semina l’erba cattiva ed infestante? Oltre alle condizioni di povertà infatti, per compiere gesti crudeli come questo, è necessaria un’educazione. Come in guerra, il nemico, per poterlo stuprare, ammazzargli i figli davanti agli occhi o fare a pezzi il suo corpo, deve prima essere percepito come “non umano”. È il metodo che si usa per convincere opinioni pubbliche e truppa, quello della disumanizzazione del nemico, che vale la pena morire al fronte, o che uccidere non è più peccato mortale, perché ciò viene fatto in ragione di una minaccia di “non umani”. Che non hanno gli stessi diritti degli umani dunque. Le cui vite valgono di meno e si connotano in altro che non il vivere civile tra umani.
Questa modalità di disumanizzazione del nemico è così forte nell’epoca contemporanea, da mettere in crisi persino lo “Ius ad bellum”, e la guerra è condotta contro i civili e senza alcuna regola, anche quando è tra stati. Nella guerra contro i migranti subsahariani in Tunisia, il processo di disumanizzazione ha un momento topico: il discorso pronunciato dall’autocrate Kais Saied lo scorso 21 febbraio durante una riunione del Consiglio Superiore per la sicurezza: “C’è stata la volontà, dall’inizio di questo secolo, di cambiare la composizione demografica della Tunisia, attraverso ondate successive di migranti subsahariani, che mira a trasformarci in un paese meramente africano, che non appartiene al mondo arabo musulmano”. Dunque, questi neri, sono solo l’infido strumento di un piano di sostituzione etnica.
Ecco la semina, di pura zizzania. I risultati, fin dalle prime ore successive a questo discorso ufficiale del Capo di stato, lo stesso al quale i nostri di capi hanno steso tappeti rossi a Roma due settimane fa, non si sono fatti attendere. Attacchi a sfondo razziale nelle città, pestaggi, violenze: la “messa al bando” ha funzionato, fino alle orribili recenti deportazioni nel deserto. Naturalmente il codice penale italiano parla di “pirateria”, intendendo che “il comandante o l’ufficiale di nave nazionale o straniera, che commette atti di depredazione in danno di una nave nazionale o straniera o del carico, ovvero a scopo di depredazione commette violenza in danno di persona imbarcata…”. Ma questo termine, “pirati”, non può non richiamare la storia del mare.
C’erano i pirati, ma anche i bucanieri, i filibustieri, e i corsari. I pirati assaltavano e affondavano le altre navi, cariche di tesori e di merci che appartenevano ai re e alle regine, i corsari invece erano al servizio dei re e delle regine. Agivano, i corsari, sulla base di una precisa autorizzazione, la “lettera di corsa”, e battevano bandiera di chi li assoldava. Attaccavano navi nemiche, e se catturati erano trattati come prigionieri di guerra. I Pirati invece, giustiziati sommariamente come “ribelli”. E allora, se ci fosse modo, il termine forse più corretto per chi si è macchiato dell’infamia di attaccare e depredare quei barchini di profughi, sarebbe “corsaro”, non pirata.
In fondo chi gli ha insegnato, a questi pescatori tunisini, che la vita di un migrante non vale niente? Che sono solo un’arma, i migranti, usata da chi vuole togliere alla Tunisia la sua storia e la sua religione? Chi gli ha insegnato che si possono deportare nel deserto, come pacchi, che se muoiono è colpa loro, che si mettono in viaggio? E al presidente Saied, chi ha insegnato che i lager in Libia si possono fare per rinchiuderci persone che non devono arrivare sulle coste europee? E chi ha insegnato sempre a Saied, che si possono avere molti soldi in cambio della partecipazione alla guerra contro i migranti?
Tutti questi messaggi istituzionali, non hanno dunque il valore di una “lettera di corsa” consegnata nelle mani di opinioni pubbliche disposte rapidamente a mettersi a servizio? Non è un caso che qualcuno dalle parti del governo Meloni, commentando la notizia abbia esclamato: “Ecco il vero blocco navale contro i migranti!”. L’inchiesta contro gli arrestati farà il suo corso, e ognuno è innocente fino a prova contraria. Se fossero pirati rischierebbero l’esecuzione sommaria. Ma sono Corsari. Vanno trattati come “prigionieri di guerra”. Della sporca guerra contro poveri e migranti in atto nel Mediterraneo da lunghi anni.