Il governo e le sfide dem
Intervista a Pierfrancesco Majorino: “I diritti umani non sono un capriccio”
«Non sono un capriccio dei buonisti, o un affare da delegare al Vaticano, il loro rispetto deve condizionare le scelte politiche.»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
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Dal memorandum Europa-Tunisia alle sfide che investono il nuovo Pd di Elly Schlein. È un colloquio a tutto campo quello con Pierfrancesco Majorino, già europarlamentare Dem, consigliere regionale in Lombardia e membro della segreteria nazionale del Partito democratico, con la responsabilità per le Politiche migratorie e Diritto alla casa.
L’Europa, con grande soddisfazione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha “partorito” il memorandum d’intesa con la Tunisia dell’autocrate Saied. Ma c’è tanto di cui vantarsi?
Io temo che siamo di fronte alla riedizione di un film già visto. Nel senso che ho paura che questa sia l’ennesima fase di esternalizzazione delle frontiere, con un’azione che sarà molto oscura sul piano del rispetto dei diritti umani. Abbiamo già dato con la Libia, in condizioni certamente diverse e comunque mossi allora dalle migliori intenzioni, come Italia. Ma il fallimento fu micidiale di quel tipo di azione, tanto che si produssero dei veri e propri campi di concentramento. Temo molto che alla fine che con la Tunisia si realizzi una intesa molto, molto simile.
Intanto il Mediterraneo continua sempre di più ad essere un enorme cimitero di migranti.
Siamo di fronte al Mediterraneo come grande cimitero. Un grande cimitero rimosso, aggiungerei. Si fa finta di non vedere quella che è la situazione. Addirittura non si riesce a quantificare il numero dei morti e sfuggono perfino meccanismi di identificazione delle vittime, tanto è la rimozione collettiva. Questo avviene anche perché non si punta mai su questioni assolutamente cruciali…
Quali?
Da un lato la realizzazione e ampliamento dei canali di accesso regolari, legali, sicuri. Ancora una volta questo aspetto mi pare scandalosamente buttato fuori dall’azione che viene sviluppata a livello italo-euro-tunisino. Dall’altro lato, non c’è un minimo rilievo sul tema, letteralmente vitale, dei servizi di ricerca e soccorso. Noi non possiamo continuare a ignorare che vi sia una grande questione che è quella di che tipo di transito tragico affrontano le persone. È un viaggio che dovremmo da una parte prevenire con canali di accesso regolari, e dall’altra dovremmo nell’immediato avere una missione europea, una “Mare nostrum europea” rilanciata da Elly Schlein a Bruxelles, di soccorso nel Mediterraneo. Tutto questo non mi pare esserci alle porte. E credo peraltro che abbiamo un problema che non è solo quello di una politica italiana che con la Meloni non ha in alcun modo a cuore il tema dei diritti umani. La rimozione del tema dei diritti umani è nel Dna di questa destra. Nel frattempo le città italiane sono totalmente abbandonate a loro stesse nella gestione dell’immigrazione da parte del governo. Ma c’è anche una politica europea non adeguata.
Il nuovo Pd di Elly Schlein sul Mediterraneo, dal no al rifinanziamento nel decreto missioni alla Guardia costiera libica, alle critiche sull’atteggiamento di sudditanza del governo all’Egitto di al-Sisi, non solo sul caso Regeni, e ora le critiche al memorandum con la Tunisia, ha dato prova di discontinuità con il passato. Eppure non sono mancate critiche, anche interne ai Dem.
Io credo che ci stiamo riappropriando di una categoria essenziale, che è quella dell’intransigenza sul piano del rispetto dei diritti umani.
I diritti umani non possono, non devono scomparire ogni volta dal tavolo della geopolitica e delle relazioni tra Stati, a livello bilaterale e in quello multilaterale. Sembrano invece essere un capriccio dei buonisti, una categoria da delegare alle esortazioni del Vaticano. Invece sono un elemento essenziale per condizionare le scelte politiche. Queste scelte devono farsi condizionare anche dal rispetto dei diritti umani. Questo aspetto in tutti questi anni è stato completamente cancellato. A prevalere è stata una visione dell’immigrazione come un danno da ridurre, come una minaccia da combattere, fino ad arrivare a gridare a una “invasione” che non è mai esistita. Se io ritengo che con l’immigrazione debbo applicare la strategia della riduzione del danno, allora è evidente che faccio scelte assolutamente non adeguate, perché non guardano minimamente ad uno degli aspetti, che certo non è l’unico, cioè quello dei diritti umani.
Che destra è quella che sta governando l’Italia?
Una destra che pratica un nazionalismo un po’ sciatto. Ogni tanto alla ricerca di fatti simbolici fortemente regressivi. Azioni dal punto di vista culturale, penso alle sparate di Valditara, Lollobrigida, dello stesso Piantedosi all’inizio. C’è un’azione da questo punto di vista simbolicamente molto negativa. E dall’altra alla prova dei fatti c’è una sciatteria di fondo. Non è che siamo di fronte ad una nuova destra che fa fare grandi innovazioni, pericolose ma comunque innovazioni all’Italia. Siamo di fronte alla sciatteria di un potere che non riesce nemmeno a gestire il caso Santanché e, soprattutto, all’immobilismo su sanità, lavoro, casa che sono questioni essenziali in questo momento.
Su queste grandi questioni sociali, sulla guerra, sulle migrazioni, sui diritti, sulla giustizia, sull’ambiente, scrive Piero Sansonetti in un’editoriale de l’Unità: la grande sfida di Elly Schlein è quella di dare un pensiero alla sinistra.
Io credo che siamo nel pieno di grandi transizioni e quindi anche di una grande necessità di ripensare alcuni ancoraggi fondamentali. Penso che ci sia un punto essenziale che è quello di sostenere le persone in una fase d’insicurezza. Nel mondo di oggi questi salti d’epoca sono sempre più contrassegnati dal fatto che si consegna uno scenario d’insicurezza alle persone sul presente e sul futuro.
La sinistra deve essere quella che sta al fianco e con risposte che non mettano gli uni contro gli altri, che non creino nuove lacerazioni tra i fragili, ad esempio, ma che scommettano molto di più sul valore dei diritti sociali, sul riscatto sociale, sulla grande questione climatica che deve essere sempre associata alla questione sociale. È per questo che credo sia importante quello che stiamo facendo sul salario minimo, a livello nazionale, sulla casa, sulla sanità pubblica. Non solo per le ricadute nel merito, ma perché sono anche un tentativo di ridefinire quelle che devono essere le priorità per il nostro campo.
Perché invece di appassionarsi e nel caso anche dividersi su queste grandi questioni, il dibattito politico – anche dentro il Pd almeno come viene raccontato – sembra sempre essere legato alla questione delle alleanze?
La metto giù così. Credo che ci sia un dibattito molto interno al ceto politico, ad un gruppo molto limitato di persone, riguardante, per fare un esempio, la divisione tra riformismo e radicalità cose che appartengono ad un confronto che è lontanissimo dalla dimensione reale, non dico solo dalla vita reale ma anche da quelle che dovrebbero essere le sfide politiche dell’oggi.
Poi c’è la questione delle alleanze. Le alleanze sono inevitabili. Ma resto convinto che a noi faccia molto bene continuare sulla linea di questi mesi, cioè rafforzare la posizione del Partito democratico e farlo non mettendo ciò in contrapposizione, lo si è visto sul salario minimo, con la ricerca di convergenze quando questo è possibile.
A proposito della dicotomia “radicali”/”riformisti”. Che senso politico ha la riunione di una parte del Pd che si definisce “riformista”? E gli altri cosa sarebbero?
Sono convinto che, Bonaccini in testa, pensino di non essere gli unici riformisti. Non credo che noi siamo dei pericolosi rivoluzionari. Confido sul fatto che quello di Cesena sia un appuntamento utile per rafforzare momenti di unità e non per pompare una logica correntizia sulla base di una parola, di una categoria, quella del riformismo, che in questi anni è stata tirata da una parte e dall’altra e che spesso vuol dire tutto e il suo contrario. Su questo confido molto in Bonaccini e in diversi promotori.
“Riformismo”, “europeismo”. Parole che non sostanziate politicamente restano puro esercizio retorico. Provi lei a declinarle.
Il riformismo è la necessità di governare i cambiamenti, di assumersi delle responsabilità, d’indicare con molta concretezza la rotta rispetto alle scelte che si fanno. La sinistra in Germania o in Spagna – quest’ultima ci auguriamo resista nelle imminenti elezioni a questo vento di destra globale – è riformista. Lo dico venendo dall’esperienza del Parlamento europeo: la famiglia dei socialisti e democratici è totalmente attraversata dalla cultura riformista, una cultura politica che è davvero patrimonio di tutti. Credo che sia veramente artificiale l’uso interno di questo tipo categoria. Ed è il motivo per cui questo dibattito è sempre più ristretto a poche centinaia di persone. Quanto all’europeismo, è la necessità di stare dentro una scommessa politica indispensabile, irrinunciabile, sapendo che l’Europa va cambiata e difesa. Va cambiata perché spesso ha visto al suo interno il minimo comune denominatore come un compromesso al ribasso, pensiamo a cooperazione, immigrazione, diritti umani. Cosa che non è avvenuta, ed è un bene, su temi cruciali quale la transizione ecologica dove si è realizzato un grande spirito innovativo. L’Europa va difesa perché l’attacco a cui è sottoposta, come grande progetto unitario, è persistente, aggressivo. La destra periodicamente, tanto più in vista delle elezioni europee del prossimo anno, rialzerà la voce per fare vivere una sorta di Europa come patria di tutti nazionalismi che finirebbero per mortificare ancora una volta questa enorme sfida, una Europa più forte, coesa, che ancor prima che sul piano economico e finanziario, e su quello politico, deve riguardare le culture dei popoli.
L’Europa e la guerra. La diplomazia sembra affidata e affidarsi solo alle armi. E la politica?
Io credo che noi abbiamo fatto bene a sostenere l’invio delle armi all’Ucraina. Ho sempre votato con convinzione perché le armi erano e sono indispensabili per aumentare la capacità di difesa dell’Ucraina soprattutto nella prima fase della guerra in relazione all’aggressione sconvolgente di Putin. Questo è un punto politico, non di strategia militare. Era indispensabile garantire una tenuta della difesa ucraina perché altrimenti avrebbe vinto Putin. Altresì è evidente che serva uno sforzo negoziale più potente dell’Europa, in un passaggio che è strettissimo perché la volontà di Putin è difficile da saggiare in questo momento, anche la sua strategia. Però sono convinto del fatto che vada incoraggiato qualsiasi sforzo negoziale. Per questo ho ritenuto positivo il tentativo del presidente della Cei, il cardinale Zuppi. Vi sono necessità negoziali da rendere più evidenti.