Il caso di Rimini
Trattamenti disumani nel carcere di Rimini: parola di giudice
Le criticità della prima sezione erano già state segnalate dalla Camera penale e dai radicali.
Editoriali - di Enrico Amati
Pochi chilometri separano Rimini dalla Repubblica di San Marino. Eppure la distanza è abissale sul piano della situazione delle carceri. A San Marino attualmente non c’è nemmeno un detenuto e si ragiona addirittura sulla possibilità di abolire il sistema carcerario. La prima sezione della Casa circondariale di Rimini riflette invece (purtroppo) la drammatica, e inevitabilmente più complessa, situazione in cui versano le carceri italiane, di recente fotografata anche dall’ultimo rapporto di Antigone.
Il tema è stato oggetto di discussione presso il Palazzo Pubblico di San Marino in occasione della tappa romagnola del “Viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino, al quale hanno partecipato anche alcuni componenti dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Rimini e il Garante dei detenuti. Le criticità della prima sezione, più volte segnalate dalla Camera penale e dai radicali riminesi, derivano dall’inadeguatezza della struttura e non possono essere superate dalla grande professionalità e umanità degli agenti e operatori penitenziari. Già nel novembre del 2021 le verifiche dell’Ausl avevano evidenziato condizioni igieniche «molto scadenti», non risolvibili con interventi di ordinaria manutenzione, tali da rappresentare «un rischio sanitario per i detenuti».
Non giunge pertanto inaspettata l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza di Bologna del febbraio di quest’anno che, accogliendo il reclamo di un detenuto, ha riconosciuto che parte del periodo di detenzione subito all’interno della sezione configura un trattamento inumano e degradante in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Le problematiche riscontrate – angolo cottura affianco al wc, presenza di insetti, condizioni scadenti dei locali docce – rappresentano purtroppo situazioni ricorrenti nelle carceri italiane, che evidenziano lo “scandalo” della pena carceraria in Italia. Scandalo, per usare le parole del Prof. Tullio Padovani, «è tutto ciò che suscita reazione di sdegnata meraviglia per l’assurdità del suo stesso accadere […] Sostanzialmente si fa perno sulla constatazione che il carcere realizza una situazione di fatto che è in contrasto con tutti i parametri normativi dettati per disciplinarla» (La pena carceraria, Pisa, 2014).
La buona notizia, per quanto riguarda Rimini, è che finalmente sembra siano stati sbloccati i fondi per la ristrutturazione della prima sezione. Bisognerà però attendere i tempi della burocrazia. Nel frattempo? Nel frattempo è ragionevole prevedere che i detenuti continueranno a fare ricorso agli strumenti compensativi che l’ordinamento mette loro a disposizione, probabilmente ottenendo riduzioni di pena e irrisori ristori patrimoniali. Tutto bene, dunque? Personalmente ritengo che, in attesa della auspicata ristrutturazione e sempre che sussistano le condizioni per farlo, la sezione dovrebbe essere chiusa. Un ordinamento democratico-liberale non può tollerare che all’interno di una struttura detentiva si assuma violato l’art. 3 della Cedu.
Se poi si volge lo sguardo “oltre il giardino” del carcere romagnolo, si deve prendere atto che occorre superare la visione carcerocentrica della pena. La Costituzione, riferendosi alle “pene”, nega la pigra equivalenza tra pena e carcere. La riforma Cartabia, con l’introduzione delle “nuove” pene sostitutive, esprime – almeno sul piano culturale – un mutamento di passo nell’ottica della pena carceraria quale extrema ratio. Occorre tuttavia una revisione profonda del sistema sanzionatorio nell’ottica del superamento della centralità del carcere, intervenendo sullo stesso “catalogo” delle pene principali.
Si deve poi tornare a ragionare in termini di diritto penale ‘minimo’, attraverso politiche di depenalizzazione e il recupero degli strumenti di clemenza. A San Marino si riflette addirittura sulla possibilità di fare a meno del carcere. Un’utopia per l’Italia? Può darsi. Ma, forse, richiamando il pensiero dello storico delle idee Isaiah Berlin, si tratta davvero dell’”utopia della decenza”.