Visitare i carcerati per capire che il carcere è un ferro vecchio
Giustizia - di Gabriele Terranova*
Qualche anno fa, quando l’Italia fu condannata dall’Europa per le endemiche condizioni di sovraffollamento in cui versavano i nostri Istituti di detenzione, in violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti, il Governo Renzi, illustrando il piano per rientrare nella legalità, volle dare atto dell’esistenza di alcuni soggetti indipendenti che eseguono regolari visite nei luoghi di privazione della libertà personale, esercitando un controllo – per così dire – diffuso sul rispetto dei diritti umani e sugli standard di civiltà che vi sono garantiti.
Il fatto di essere stati menzionati fra quei soggetti costituì un importante riconoscimento, per noi penalisti delle camere penali che, dal 2006, ci eravamo dotati di un osservatorio carcere proprio con questa finalità.
Oggi esiste anche un garante nazionale che si occupa dei diritti delle persone private della libertà personale e tanti garanti nominati dagli enti locali territoriali, ma conserva tutta la sua importanza anche il monitoraggio esercitato da soggetti non istituzionali, fra i quali si segnala in particolare l’associazione Nessuno tocchi Caino, che ha raccolto il testimone di Marco Pannella e della cultura radicale, da sempre attentissima a questi temi. Quest’ultima, sotto lo slogan “Il viaggio della speranza – visitare i carcerati”, ha promosso l’iniziativa, nella quale sta coinvolgendo i penalisti di tutta Italia, di organizzare non singole visite, ma un tour che, regione per regione, si propone di visitare tutti gli Istituti di detenzione del paese e che, ad aprile, ha segnato ben 11 tappe toscane.
Il progetto è di grande interesse, non solo per l’impatto comunicativo che, sul territorio, rappresenta l’arrivo della carovana dei visitatori, che organizza sempre conferenze stampa e occasioni di pubblico dibattito, ma anche perché, un pezzo per volta, nel giro di un anno, avremo una radiografia completa di tutto il sistema penitenziario nazionale.
L’intenzione finale, per nulla velata, è quella di promuovere anche una riflessione di fondo sull’opportunità di superare il carcere, quale forma di risposta privilegiata all’illegalità, rivelandone il volto brutale e degradante, che è tale sempre e ontologicamente, non tanto per ragioni congiunturali. Gli orizzonti del terzo millennio, nel quale siamo oramai entrati a pieno titolo, offrono ben più estese alternative, magari altrettanto invasive e da adottare con le dovute cautele, a chi ambisce esercitare un controllo sociale, rispetto agli strumenti di cui disponevano i governanti del 700, quando scelsero la prigione come alternativa alle pene corporali e alla legge del taglione.
Il discorso ci porterebbe lontano, ma può anche essere declinato in termini minimali, immaginando di cominciare a sostituire i cancelli e le sbarre di metallo con normali porte blindate e vetri antisfondamento e i militari armati con strumenti di controllo telematico (come braccialetti elettronici, ma anche comuni webcam e smartphone geolocalizzati), in modo da contribuire ad assottigliare la differenza concreta fra una prigione e il confinamento coatto – più o meno esteso, a seconda delle concrete esigenze – in luoghi di privata (o pubblica) dimora.
Anche il bilancio delle tappe toscane, offre interessanti spunti di riflessione. Ovunque abbiamo trovato strutture datate e ambienti fatiscenti, promiscuità fra gli spazi utilizzati per cucinare e lavare i piatti e i bagni, separati dal resto degli spazi detentivi talvolta solo da una tenda; per non parlare di docce e acqua calda, quasi sempre relegate in ambienti comuni, pregni di umidità stagnante, muffa e cattivo odore. Il tutto a dispetto di diffusi quanto interminabili progetti di ristrutturazione che, sulla carta, avrebbero dovuto garantire condizioni minimali di igiene e decoro e che invece contribuiscono a disegnare un quadro fosco di precarietà ed emergenza.
Naturalmente, ovunque mancano le opportunità di studio o lavoro o di altre utili occupazioni e, anche quando il regime detentivo è aperto (si può cioè uscire dalle celle nelle ore centrali della giornata), l’alternativa alla branda è solo quella di passeggiare nei corridoi. Si riscontrano infine continuamente, fra i detenuti, problemi di salute e di dipendenze, quando non veri e propri casi psichiatrici, tutt’altro che rari, in attesa di cure e di quel trattamento individualizzato voluto dalla legge, che spesso cede il passo alla gestione del quotidiano.
Unico significativo elemento di conforto: nelle strutture di dimensioni ridotte, a dispetto del degrado e perfino di tassi di sovraffollamento oltre la soglia di tollerabilità, si respira un clima disteso, perché il rapporto fra il personale e i reclusi è più diretto e si instaurano relazioni umane migliori.
Speriamo che il messaggio arrivi a chi, quando si parla di piani di edilizia penitenziaria, quale unica, miope risposta a tutti i problemi del settore, propone di costruire maxi-carceri da 5.000 posti, cioè dieci volte i più grandi Istituti della Toscana.
*Co-responsabile Regione Toscana Osservatorio Carcere Ucpi