L'addio a 88 anni

Chi era Goffredo Fofi, anima colta e piedi nudi: addio vecchio burbero

Curioso come un bambino, talvolta litigioso fino a essere intrattabile, francescano controcorrente perché contro ogni potere. Lo conobbi a 18 anni. Vi racconto il mio maestro

Cultura - di Filippo La Porta

14 Luglio 2025 alle 08:30

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Photo Lapresse 8-2-2024 – Roma, Italia
Photo Lapresse 8-2-2024 – Roma, Italia

Goffredo Fofi, scomparso ieri a 88 anni, è stato un intellettuale (termine da lui odiato) dissidente e non allineato (eccentrico in tutto, anche nell’abbigliamento: quando lo conobbi aveva un paio di sandali fino a ottobre e poi un paio di scarpe per i mesi freddi), che ha attraversato 70 anni di storia italiana con un ruolo sempre attivo di inesauribile interprete del presente, di coscienza critica, di pedagogo e maestro, di polemista, di organizzatore di eventi e premi (dedicati a figure a loro volta non allineate), di consulente editoriale, di autore di taglienti pamphlet. Un iperattivismo che nasceva da un’antica paura: da ragazzino a Gubbio pensava che se ti fermi anche solo un attimo ti afferra il diavolo!

Per capirlo bisogna ricordare che proveniva da Aldo Capitini (umbro, come lui) e da Danilo Dolci (creatore di comunità), da quella radicalità etica, dalla lotta nonviolenta e dall’impegno – tinto di millenarismo – verso i più emarginati. E poi dal cinema, da un amore adolescenziale per il cinema, di cui possedeva una conoscenza illimitata, per registi, attori e attrici. Negli anni 60, dopo aver partecipato alla fondazione dei Quaderni piacentini inventò Ombre rosse, battagliera rivista di cinema e altro. Per comporne questo – parzialissimo – ritratto, non posso prescindere dal mio rapporto personale con lui. Io lo conobbi perché nel 1970 – a 18 anni – , innamorato di quella rivista, scrissi alla redazione di Torino per chiederne dei numeri arretrati. Anche perché quella rivista riusciva a mettere insieme i grandi classici, i Lang, Keaton, Renoir, Kurosawa, Buñuel, Losey, etc. con Jerry Lewis, il mito della mia adolescenza, e poi il western di Ford, la commedia di Cukor, il poliziesco di Huston… Mi rispose tempestivamente con un biglietto scrivendo perentorio: “Vengo a Roma giovedì prossimo, ci vediamo da Canova alle 4” (probabilmente avrebbe pranzato con Elsa Morante, che abitava lì davanti, sua grande amica). Si presentò – eravamo in autunno – con barba ispida, un giaccone informe e sandali da frate. E mi abbracciò con foga, come ci si abbraccia nei romanzi russi. Ho capito subito che era un assoluto outsider. Refrattario a qualsiasi salotto.

Avverso a ogni potere: politico, accademico, giornalistico, culturale… (era autodidatta, diplomato alla magistrale). Negli anni 70 fu il maestro di una generazione di militanti politici, sapendo immettere nella durezza ideologica suggestioni e umori culturali diversissimi. Forse più uno straordinario mediatore culturale che un maestro. Ogni tanto diceva che in una triade ideale di riferimenti accanto a Marx e Freud occorre metterne un terzo, meno ovvio: “Fate voi, Tolstoj o Buddha o Gandhi…”. Una frase che citava spesso era tratta dalla Regola del gioco di Renoir: “Il tragico della vita è che ognuno ha le sue ragioni” (che è poi un minuscolo antidoto ai fanatismi che gravavano sul Movimento). All’inizio degli anni 80 mi convocò per fare Linea d’ombra, insieme a Sinibaldi, Bettin, Piersanti, Barenghi, Maria Nadotti, Paola Splendore, etc. (tenuti insieme da Lia Sacerdote, a Milano), la più vitale rivista letteraria di quel decennio, che accompagnò il revival della narrativa italiana con uno sguardo critico sempre divergente, attento alla specificità dei testi ma soprattutto sensibile a una interrogazione “umanistica” di tipo etico, insolita per quel periodo (all’università trionfavano gli asettici metodi strutturalisti, nella società italiana si viveva la seconda stagione del consumismo). Volle portare i giovani redattori in pellegrinaggio da alcuni grandi intellettuali e scrittori: Bilenchi, Pratolini, Morante, Fortini, Cases…. una scuola irripetibile!

Innumerevoli i temi affrontati da Fofi nella sua fitta produzione libresca (spesso autobiografica): a parte il cinema (sua fu la riscoperta di Totò, in un libretto che divenne un bestseller), potremmo elencare anzitutto il Sud, poi scrittrici e scrittori da lui amati (oltre a Morante e Ortese, Silone, Jovine, Carlo Levi, ma anche Bonhoeffer e Simenon…), registi da lui amati (di Buñuel curò le sceneggiature), la nonviolenza, la scuola e la formazione, l’emigrazione (una celebre inchiesta sugli immigrati a Torino, allora bocciata da Einaudi), l’America Latina (a lui si deve la scoperta di Garcia Marquez e di Cent’anni di solitudine)… Se dovessi scegliere un titolo solo direi Il Cinema italiano: servi e padroni, un pamphlet meravigliosamente corrosivo sul cinema italiano. Fazioso oltre ogni limite: del cinema italiano salvava solo Ferreri, Carmelo Bene e in parte Bellocchio (molti giudizi stroncatori sono insostenibili: lui stesso fece autocritica su Fellini, Rosi, Pontecorvo, non su Antonioni e Bertolucci!), ma scritto con uno stile vivacissimo, colto, sapido, provocatorio, sorprendente. Un esempio alto di letteratura satirica.

La sua invenzione più bella e originale? Le riviste culturali: alcune le ho ricordate, poi Dove sta Zazà (legata alla Mensa dei bambini di Montesanto, da lui creata – una esperienza decisiva per la storia recente di Napoli ). Lo straniero, Gli asini. Non so però se sarebbe stato felice di questo riconoscimento: la sua aspirazione, l’ho detto, non era tanto fondare riviste quanto sviluppare un impegno da missionario laico, che cura i derelitti (a Calcutta, dove eravamo per un convegno su Pasolini, avrebbe voluto restare lì, nella sede della casa dei lebbrosi di Madre Teresa), del frate francescano che sceglie di stare con la povera gente. La sua vocazione più forte? Quella di maieuta: ha incessantemente scoperto e scovato talenti, li ha saputi seguire e valorizzare, etc. Poi come Crono divorava i propri figli, specie se avevano successo, una colpa – per la sua mentalità da luterano – imperdonabile. Poteva diventare severissimo e intrattabile. Non ci sentivamo da dieci anni. D’altra parte, come ricordava Pasolini in Uccellacci e uccellini, i maestri vanno mangiati – e metabolizzati – con salsa piccante…

La sua parte intellettualmente più ammirevole? Forse le palinodie, il ripensamento critico di posizioni avute in passato (il che rivela la sua libertà e onestà). Una fra tutte: quella su Pasolini, da lui bistrattato negli anni 70. Quella umanamente più bella? La curiosità, la freschezza da adolescente, tra un furore e l’altro (non era per niente un temperamento tragico, come pure amava presentarsi). Il suo nemico? La pacificazione, qualsiasi cosa significasse questo termine. Benché laico coltivava una sua fede, certamente irregolare, ed era attratto da eretici e mistici. A chi disprezzava Padre Pio replicava che era il “Che Guevara dei poveri”. In particolare credeva molto nella “compresenza dei vivi e dei morti” di Capitini. Questa fede ci permette oggi di immaginarlo ancora tra noi, intento a cucinare una pasta aglio, olio e peperoncino (senza più le alici, come invece una volta: il suo vegetarianesimo era intransigente): dialogante, burbero e sempre un po’ litigioso.

14 Luglio 2025

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