Il responsabile Università e Ricerca Pd
Parla Alfredo D’Attorre: “Niente tecnici e larghe intese, con Schlein mai più quel Pd”
«Non ci sarà più un Partito democratico pronto a sacrificare coerenza e radicamento sociale per ottenere una legittimazione dall’alto. La scelta di questa segreteria è provare ad andare al governo con i voti degli elettori»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Alfredo D’Attorre, responsabile Università e Ricerca nella Segreteria nazionale del Partito Democratico. Per le posizioni assunte su Israele e la Palestina, come per aver sostenuto i 5 referendum, la segretaria del PD Elly Schlein è stata accusata di massimalismo pacifista, di subalternità a Landini, Conte e Fratoianni. Siamo di nuovo al “tiro al segretario”?
La segretaria ha il merito di aver riposizionato il partito sui temi decisivi con una serie di scelte coraggiose, che hanno restituito al PD un profilo riconoscibile. Dopo le ultime elezioni politiche, il partito era diviso all’interno, isolato all’esterno, in picchiata nei sondaggi e, secondo molti osservatori, prossimo all’implosione. Oggi molto lavoro resta da fare, ma siamo in una situazione completamente diversa. Il nuovo PD ha ancora molta strada da fare, ma i nostalgici del vecchio PD soffrono di una qualche rimozione della realtà.
Perché allora tanto accanimento critico sul nuovo corso del PD?
La consapevolezza che indietro non si torna mi pare abbastanza consolidata nella base del partito, tanto che nessuno all’interno chiede una sostituzione della segretaria. Mentre mi pare ci sia più sofferenza in certi ambienti esterni – economici, editoriali, internazionali, istituzionali – che si erano abituati a considerare il PD uno strumento sempre pronto a rispondere appena scattavano determinati input sistemici: governo Monti, larghe intese dopo le elezioni del 2013, riforma del mercato del lavoro durante il governo Renzi, governo Draghi, rottura dell’alleanza con il M5S prima delle ultime elezioni politiche, per fare alcuni esempi. Finché ci sarà questa segreteria, quell’atteggiamento non tornerà: non ci sarà più un PD pronto a sacrificare coerenza e radicamento sociale per ottenere una legittimazione dall’alto. La scelta di fondo di questa segreteria è quella di tentare di andare al governo grazie alla legittimazione dal basso del voto degli elettori, non con nuove larghe intese. Da questo punto di vista, capisco il disorientamento di chi dall’esterno si trova ad avere a che fare con un PD che ha acquisito piena autonomia politica e, in alcune occasioni, può rispondere con dei sonori no.
Non crede che ci sia la necessità di una verifica interna sulla linea politica?
Il confronto negli organismi è sempre positivo, come pure il coinvolgimento democratico dei nostri iscritti ed elettori sulle scelte di fondo. A un certo punto, ci sarà anche un nuovo appuntamento congressuale, nel rispetto dello Statuto e nelle forme e nei tempi che insieme decideremo. Ciò che sinceramente non capisco è la posizione di chi non mette in discussione la guida della Schlein, ma vorrebbe che la segretaria seguisse una linea politica opposta a quella in cui crede e sulla base della quale è stata eletta. Il congresso del PD non elegge una responsabile dell’organizzazione o dell’iniziativa politica, che si dedica a organizzare un po’ di campagne sul territorio, mentre gli “adulti”, i “saggi”, i “competenti” garantiscono le vere scelte politiche, come qualcuno continua a pensare. Il congresso del PD elegge la leader o il leader che ha il compito di costruire e guidare la proposta di governo.
I censori, interni ed esterni, accusano il PD “schleiniano” di essere privo di cultura di governo. Ma cos’è, per lei, cultura di governo?
Per me la cultura di governo è in primo luogo senso della realtà, senso storico, senso del limite. Sento e leggo delle critiche alla Schlein come se fossimo ancora nel mondo degli anni Novanta, nel pieno della fase ascendente della globalizzazione neo-liberale, della fiducia dell’Occidente di poter imporre il suo modello a tutto il resto del mondo, della fede nella capacità auto-regolativa del mercato, della convinzione che il pubblico sia sempre il problema e il privato la soluzione. Mi chiedo: chi oggi ripropone esattamente le stesse ricette di allora, in nome della “cultura di governo”, non mostra un tasso di velleitarismo ben maggiore di chi prova a costruire una proposta fortemente discontinua? Più che cultura di governo, in diverse critiche alla Schlein leggo nostalgia della propria giovinezza e difficoltà di fare i conti con il mondo di oggi.
La segretaria del PD è stata molto criticata anche per essersi opposta all’innalzamento delle spese militari al 5% del PIL. C’è una deriva antiamericana del PD?
Più che una deriva antiamericana del PD, mi pare ci sia una deriva antitaliana della Meloni. La scelta del 5% è immotivata, irresponsabile, insostenibile. Lo è dal punto di vista militare, geopolitico ed economico. Le leadership europee che, con l’eccezione di Sanchez, si sono piegate a questa decisione hanno sancito la loro irrilevanza e subalternità. Da questo punto di vista, le prossime elezioni politiche in Italia, oltre alla scelta fra sanità e istruzione pubbliche o private, fra lavoro stabile o precario, avranno un altro discrimine di fondo ben chiaro fra i due schieramenti: chi voterà la destra dirà sì alla scelta del riarmo e dei tagli alla spesa sociale per ubbidire a Trump, chi sceglierà la coalizione progressista metterà al primo posto la difesa del welfare e l’idea di un’Europa più autonoma, decisa a giocare un ruolo come potenza civile, non a contribuire (da comprimaria peraltro) alla militarizzazione delle relazioni internazionali.
Le regionali del prossimo autunno saranno il passaggio elettorale più importante prima delle prossime politiche. Il PD e il centro-sinistra non ci arrivano con qualche affanno di troppo su candidature e accordi di coalizione?
Oggi la necessità di una coalizione progressista unita e credibile anche sui territori non è più messa in discussione da nessuno, ad eccezione di chi si acconcia a fare la ruota di scorta della Meloni: sono caduti sia i veti sia le illusioni terzopoliste. Credo che dappertutto, attorno al consolidamento del nucleo di PD, M5S e AVS, ci sarà il contributo significativo anche di forze moderate e civiche. Personalmente non credo che le elezioni amministrative o regionali siano una prova generale delle politiche, perché le specificità territoriali incidono sempre. Resta il fatto che da due anni a questa parte, quando si passa dai sondaggi ai voti reali dei cittadini, la tendenza di fondo è chiara: la destra perde posizioni e la coalizione progressista ne guadagna.
I dati economici, dallo spread al numero degli occupati, sembrano sorridere al governo. Questo non rischia di togliere credibilità agli argomenti delle opposizioni?
Sono dati che non hanno corrispondenza nella condizione reale delle famiglie e delle imprese. All’opposizione la Meloni diceva di preoccuparsi dei mercati rionali e non di quelli finanziari. Oggi ha radicalmente cambiato atteggiamento, ma qualche presenza nei mercati rionali la aiuterebbe a capire come stanno veramente le cose.
Il potere di acquisto delle famiglie in tre anni è diminuito, i salari restano tra i più bassi d’Europa, l’occupazione cresce soprattutto nella fascia di età oltre i 55 anni per effetto dell’allungamento dell’età pensionabile, crescono i part-time involontari, aumenta il numero di giovani che emigrano alla ricerca di un lavoro decente e – dato decisivo e spesso ignorato – continua a ristagnare la produttività del lavoro. Ciò significa che non cresce l’occupazione di qualità, ma solo quella in settori a bassa qualificazione, come turismo e alcuni servizi.
Dati i vincoli internazionali, che cosa si può davvero rimproverare al governo Meloni sul piano economico-sociale?
Di non avere alcuna idea su come arrestare il declino dell’Italia. Le faccio l’esempio del settore di cui mi occupo più direttamente, quello dell’università e della ricerca. È evidente che per un Paese come il nostro, che ha un problema enorme di qualificazione e produttività del lavoro, l’investimento su questi ambiti dovrebbe essere cruciale. Le scelte che il governo sta compiendo vanno in una direzione opposta: definanziamento dell’università pubblica, deregulation a favore degli atenei telematici privati, espulsione di migliaia di precari dal sistema della ricerca nella fase post-PNRR, tentativo di riforma dei concorsi universitari all’insegna del localismo più spinto e dell’abolizione di qualsiasi verifica nazionale. È l’immagine perfetta di una destra che sacrifica il futuro del Paese a interessi economici privati e a vecchi grumi di potere, che da decenni condizionano la politica universitaria.
In Italia si continua, sulla stampa mainstream, a imbastire processi mediatici contro i pacifisti, definiti talora “antisemiti” e talora “filo-putiniani”.
La cosa più impressionante, oltre alla demonizzazione delle posizioni pacifiste, è l’assenza di un qualsiasi accenno di critica all’imbarazzante politica estera del governo italiano. Imbarazzante anzitutto rispetto alla storia e alla tradizione diplomatica del nostro Paese. In un mondo in fiamme, l’Italia si ritrova con una Presidente del Consiglio preoccupata solo di compiacere Trump e con il peggiore ministro degli Esteri della storia repubblicana, che sembra un turista mandato alla Farnesina. L’ignavia del governo italiano sulla tragedia di Gaza resterà una macchia indelebile per il nostro Paese, qualcosa di cui vergognarci a prescindere dalle appartenenze partitiche.
L’Europa. Come si concilia la necessità di una svolta su pace e rilancio di un “keynesismo” sovranazionale con il sostegno alla Commissione von der Leyen?
La segretaria è stata molto chiara sul fatto che questa non è la nostra Commissione. Il PD ne ha consentito l’insediamento in una fase critica subito dopo l’elezione di Trump, quando si sarebbe aperta una crisi istituzionale dagli esiti imprevedibili. Ma la Commissione sta andando in una direzione sbagliata su tutti i dossier decisivi, dal piano di riarmo alle regole fiscali, dall’assenza di qualsiasi iniziativa su Gaza e Ucraina al rischio di una capitolazione a Trump nel negoziato sui dazi. Se la presidente von der Leyen vuole rincorrere la destra nazionalista, non ha senso che ciò avvenga con il sostegno di chi ha un’idea del tutto diversa dell’Europa e del suo ruolo nel mondo.